Questo scritto è ispirato al racconto di Friedrich Durrenmatt La guerra invernale nel Tibet.

Senza alcuna velleità ho cercato di traslarlo in laguna, adattandolo a una mia visione distopica di Venezia, cercando in alcuni tratti di seguirne pedissequamente le orme, in altri dando libero sfogo alla mia fantasia.

Riguardo al racconto originale di Durrenmatt che dire?
Alcuni quadri, almeno in parte, sfuggono alla nostra interpretazione, tuttavia sono in grado di lasciare un segno indelebile dentro di noi.

Questo mia umilissima ”reinterpretazione” è un tributo al suo fantastico racconto.

Buona lettura.


Sono un sub mercenario, e sono fiero di esserlo.

Io combatto il nemico non solo in nome della Serenissima Amministrazione, ma anche consapevole del mio incarico, che ha per missione combattere i suoi nemici, perché non esiste soltanto per aiutare il suo cittadino, ma per proteggerlo.

Combatto la guerra abissale di Venezia. Abissale perché è la sotto tra i palazzi e le chiese sprofondati nelle piane oceaniche che ci si gioca la vita.

Combattiamo a profondità fantastiche, ai margini di immense fosse continentali oppure sul bordo di bui e paurosi crateri sottomarini.
Ci muoviamo nell’acqua tra calli e rovine di antichi palazzi affioranti qua e là tra la buia superficie fangosa piatta. Oppure dentro e fuori tra le grandi cupole sventrate, ora incrostate da uno spesso strato di ”bivalvi” mutanti fosforescenti a tre valve.
Delle volte passiamo dal buio assoluto, all’accecante riverbero del materiale fissile allo stato liquido, riemerso ancora in combustione da qualche crepa profonda.

La lotta è durissima perché amici e nemici indossano tutti la stessa muta di gomma nera.
Una guerra crudele, dove da ogni anfratto può uscire un pugnale o una fiocina tridente pronta ad infilzarci mortalmente.

I nostri nasi sono sempre congelati, le labbra e le orbite oculari paonazze e rigonfie dall’eccessivo uso di maschere schiacciate dalla pressione disumana da sopportare.

L’esercito mercenario della Serenissima Amministrazione è composto da gente di tutte le parti. Dentro alle spesse mute di gomma, vi si trovano schiacciati corpi di alti scandinavi biondi dagli occhi bianchi come i ragni delle caverne, nani di pelle scura, oppure vere mantidi nere di due metri dal collo allungato.

Vi combattono ex soldati, assassini violentatori fuggiti grazie a qualche tumulto, membri di organizzazioni clandestine scomparse, avanzi di galera, killer e spietati cecchini dell’Est delle antiche guerre di superficie, torturatori professionisti di qualche scomparsa potenza mondiale.

Vale lo stesso per l’esercito nemico.

Quando non combattiamo in mare, ci togliamo le maschere per muoverci tra le gallerie e i cunicoli impermeabili scavati in tempi remoti in questa strana città, sprofondata nel mare chissà quando e perché, ma salvandola dall’annientamento totale di superficie.

Respirando elio e ossigeno passiamo da un palazzo all’altro, da una chiesa all’altra, muovendoci in un groviglio confuso di calli intubate che a volte ci conducono a scontrarci col nemico, massacrandoci.

Non siamo mai al sicuro, nemmeno nel bordello sotto la Rotonda, da cui prende il nome; un antico palazzo che si pensava scomparso secoli fa, ancor prima della guerra, poi riapparso sul fondale melmoso in seguito ai smottamenti tellurici post atomici. (app. messo dal diavolo?)

Vi sono prostitute da ogni parte del pianeta e anche il nemico le frequenta, visto che gli ufficiali addetti al bordello si sono accordati. Soluzione resasi necessaria per tenere controllato il problema nato dall’astinenza prolungata.

Il pericolo purtroppo rimane, più di un mio compagno è stato pugnalato mentre era steso sotto una puttana con la muta abbassata fino alle ginocchia. Qualcuno anche ci rideva; gemere alla morte in atmosfera d’elio può render la cosa cinicamente divertente.
La stessa sorte che toccò al mio comandante, già mio leader nella terza guerra mondiale, il quale preferiva i bordelli sozzi e corrotti delle truppe a quelli profumati di lavanda e benzalconio degli ufficiali.
Ricordo benissimo quando lo rincontrai.


Venti, forse trent’anni fa, ormai non li conto più da un pezzo, mi presentai a una postazione di superficie della Serenissima Amministrazione sopra una bagnarola munita di un potente fuoribordo, con in mano un unico documento; la patente di guida europea, elettronica.

Ero ”fuggito” dalla grande piattaforma di spazzatura, una sorta di isola galleggiante che si era creata dall’accumulo dei rifiuti buttati in mare dalla precedente civiltà scomparsa.
L’isola, che si diceva estesa quanto la Svizzera, era costituita da un’infinità di contenitori galleggianti dalle mille forme e colori, derivati dal processo di lavorazione dei combustibili fossili perpetrato incoscientemente per secoli.
Le radiazioni e le ondate d’alta temperatura non fecero altro che fondere il tutto in un amalgama plastico puzzolente imprigionando al suo interno carcasse gigantesche di cetacei, tartarughe, stormi di uccelli e corpi umani. Proprio vicino al posto dello scambio, delle enormi costole di balena scarnate dai primi coloni, delimitavano l’area dove ci si poteva divertire.
Purtroppo sull’isola era permesso esclusivamente lo scambio di tipo omosessuale. L’eterosessualità, consentita solo ai gerarchi e a pochi prescelti, era punita col bando nel caso di rapporto consensuale. Diversamente, quando si usava violenza, si veniva buttati vivi nelle gabbie d’allevamento in mare a ingrassare i pesci. Pesci sfortunatamente sprovvisti di denti, che portavano alla morte anche dopo giorni i condannati ormai consunti fino alle ossa dai continui succhiamenti. Io, evidentemente, fui condannato nel primo frangente.

Qualcuno al comando, un giorno deve aver deciso che gli esseri contaminati non avrebbero mai più dovuto generare mostruosità… come biasimare una simile scelta?


Non fu difficile arrivare sul luogo dove si combatteva ancora. Alcuni reduci mercenari presenti sull’isola, sfuggiti al massacro e al successivo cataclisma, spesso parlavano della Serenissima Amministrazione, luogo in cui si poteva ancora combattere. Luogo in cui molti mercenari e soldatesse non erano contaminati. Luogo in cui era permessa se non incoraggiata, l’eterosessualità.

L’arma finale che causò lo spostamento delle placche continentali in senso invertito, quasi in un percorso geologico accelerato a ritroso, portò alla formazione di due supercontinenti, uno nell’emisfero nord e uno in quello sud.
Il Mediterraneo era scomparso sostituendosi all’oceano, come nell’antica Laurasia.
Non fu difficile localizzare il tratto continentale del luogo dove si combatteva la battaglia decisiva.


Arrivai alla postazione di superficie parecchio sfinito. Lo strano isolotto era formato da una dozzina di curiose zattere galleggianti di metallo, unite tra loro da delle pesantissime catene di ferro arrugginito, alcune zattere erano chiuse da una tettoia a mo’ di scatola.
Fui subito messo fuori combattimento del tutto da una donna ufficiale che mi trascinò in una vicina casetta galleggiante che chiamava pontone. La zattera in passato aveva avuto pure un nome, desumibile nei caratteri cubitali leggibili tra le bruciature lasciate dall’inferno atomico; S Marcuola Casinò.
Mi fece spogliare nudo. Dopo avermi scandagliato con una specie di contatore Geiger per accertarsi sul mio grado di purezza, mi buttò sopra a un materasso lercio messo di fianco a una panchina di ferro arrugginita.
Poco dopo che mi fu sopra, ansimante, passarono di corsa dei bambini calpestando la muta di gomma con lo stemma da ufficiale che s’era tolta.
Ambedue distratti dal chiasso di quei sudici mocciosi ne approfittai subito. Racimolai le poche forze rimastemi e scavalcai la nuda virago per gettarmi completamente graffiato dietro a una porta sgangherata che celava una botola con sorpresa.
Prima fui risucchiato, poi le orecchie d’improvviso si tapparono per la pressione e iniziai a cadere, cadere, a cadere sempre più veloce. Ero sigillato all’interno di un tubo pneumatico, ricoperto da uno strano liquido organico, sparato come un proiettile verso gli abissi. Non avrei mai più rivisto la luce del sole.


Mi svegliai d’improvviso, tossendo violentemente del liquido biancastro e denso uscitomi dai polmoni. Mi sollevai sulle ginocchia ancora nudo e iniziai a guardami attorno.
Mi trovavo in un locale quadrato, illuminato da delle luci al neon. Alle pareti bianche erano appese delle mute di gomma, nere, qua e là delle mensole con sopra degli elmetti molto strani che ricordavano dei caschi da palombaro.
Dietro all’unico mobile presente, una scrivania, stava seduto un sub mercenario.
Indossava una muta nera, come quelle appese. Sotto al suo elmetto stavano impilate diverse riviste pornografiche.
Armeggiava con un fucile subacqueo sul quale teneva premuta con forza a livello del manico una bomboletta di metallo.
Mi alzai in piedi, vomitai lo stesso schifo uscito poco prima dai miei polmoni.
Finalmente si accorse della mia presenza.
“Eccolo il novellino!”
Annuii, pulendomi alla meglio le bave con il braccio.
Sorrise, o almeno così sembrò: “Liquido amniotico. È dovunque. Ti ci abituerai molto presto.”
Mentre apriva il cassetto cercai di mettere a fuoco il suo volto. Nemmeno sull’isola galleggiante avevo visto simili mutazioni. La sua faccia, di una bruttezza indescrivibile, assomigliava a una di quelle scodelle antiche recuperate in mare completamente ricoperte di cirripedi e polipi. Mi chiesi come avesse potuto superare i test genetici di ammissione.
Mi fissò, ma io fui più svelto di lui nel girare lo sguardo. D’istinto mi portai le mani sui genitali, ero ancora nudo, ma lui fece una smorfia beffandosi del mio pudore, forse del tutto fuori luogo in un posto come quello.
“Questo è il modello F-ventiquattro che devi firmare.”
Mi avvicinai alla scrivania, sempre con le mani tra le gambe e tremolante per il freddo.
“Devi spuntare la voce se credi o no all’immortalità dell’anima.”
Afferrai la matita, e solo allora mi accorsi che le nocche erano escoriate. Spuntai la casello del No.
“L’altra, riguarda l’esistenza del nemico,” mi lanciò un’occhiata, “credi all’esistenza del nemico? vero?”
Annuii, ma chinandomi ancora sul foglio, mi accorsi che non c’era scelta; l’unica casella presente era quella del Sì.
Il mercenario mollò la presa dal fucile pneumatico; la scelta, forzata o meno, di credere ciecamente all’esistenza del nemico, probabilmente mi salvò la vita.
“La tua matricola è AP 1990421. Firma sotto e provati una di quelle mute.”
Firmai senza guardare e mi girai verso la parete con le mute appese.
“Ti serve questo,” mi allungò una boccetta contenente lo stesso liquido uscito dalle mie viscere.
“Mettitela su tutto il corpo. Entrerai nella muta come infilare un guanto.”
“E uscirne?” furono le mie prime parole.
“Come un gambero… in muta.” Rise tra sé – almeno così mi sembrò – a una battuta che non fui in grado di capire.
La sua risata iniziò a farsi più acuta assomigliando sempre più a quella di un bambino col naso tappato.
Mi appoggiai al muro, sbalordito. Capii che stavamo respirando aria satura di elio a chissà quale pressione. Non saremmo mai potuti risalire in superficie, non nell’immediato almeno.

Il mercenario si avvicinò al mio viso guardandomi di traverso. Sentii il suo odore; lo stesso degli scogli che seccano al sole durante la bassa marea.

Con uno scatto mi mise davanti un fucile da pesca sub, lungo più di un metro.
“Questo è un centodieci oleopneumatico modificato. Lo puoi usare a carica manuale oppure a gas. Caricato ad arpione, ti sfonda uno scafandro a quindici metri. Se usi la fiocina tridente, alla stessa distanza provochi ferite quasi sempre mortali. Tieniti venti metri di sagola per il recupero. Le aste d’acciaio inossidabile sono sempre più difficili da trovare.”
Nel frattempo mi ero già infilato nella muta.
“Tieni! Attento che è già pre-carico a cento bar.”
Mi guardò di nuovo di traverso. Arretrai un pochino per non scontrarmi con un’altra zaffata di alghe marce.”
“Lo sai usare almeno?”
Lo afferrai con sicurezza: “Domanda scema!”
La mia fermezza parve coglierlo di sorpresa.
“Okay-okay vecio. Non sono mica tutti troie da combattimento come te.”
“Vecio?”
“Sì, si usa nella Serenissima Amministrazione per dirsi amico.”
Feci spallucce.
“Okay vecio.”
“Dai! Andiamo Diciannove.”
“E perché Diciannove?”
“Perché il tuo numero inizia con diciannove.”
Lo guardai, e mi anticipò.
“Finiamo tutti, anche i più alti in grado con quattrocentoventuno… e non me lo chiedere mai più.”

Ci immergemmo nell’acqua ghiacciata muniti di zavorra attraverso un’apertura nel pavimento. Aggrappati ad una fune ci lasciammo cadere nel buio per circa una ventina di metri.
Ad un certo punto, sotto di noi, tra i grigi della piana abissale, iniziai ad intravedere le cupole più grandi e alcuni tetti dei palazzi rimasti. Alcune torri terminavano con croci o angeli ormai irriconoscibili per lo spesso strato di molluschi che li ricoprivano.
Giunti sopra a un tetto con ancora evidenti i resti di un parapetto a merletti ci fermammo.
Il sub mercenario mi fece segno di mettere le pinne. Le levai dal gancio dietro alla schiena in prossimità del bombolino e con gran fatica mettendomi seduto riuscii a calzarle.
Scendemmo di fianco ai resti di un palazzo sventrato, poi pinneggiando immersi in quella strana luce; un miscuglio di grigi, verdi e blu in tutte le loro tonalità più cupe, raggiungemmo un edificio rimasto quasi integro.
Avvicinandoci mi accorsi che la sua facciata emetteva una strana luce, come fosse stata ricoperta d’oro. Sapevo benissimo che probabilmente era solo opera dell’esposizione all’onda radioattiva.
Da tutti e tre i piani partivano dei grossi tubi neri, di circa un metro di diametro, che salivano perdendosi nel buio, correvano orizzontali verso altri palazzi oppure scendevano conficcandosi nella melma e a tratti, anche nella roccia viva.
Mi avvicinavo a quella visione fantastica, ammaliato da tanta bellezza architettonica dal sapore gotico mischiata alla struttura tubulare cubista, quando alle nostre spalle brillò una forte luce azzurra.
Il lampo fu molto intenso e le facciate di alcuni palazzi fiabeschi apparsi dal nulla rimasero iridescenti per alcuni secondi. Fui incantato da tanta bellezza, anche se le radiazioni ci avrebbero presto ucciso.
Da qualche parte era esploso un ordigno nucleare, probabilmente a fusione. Qualsiasi cosa si fosse trovata sulla sua verticale nel raggio di chilometri, fosse stata anche una portaerei, sarebbe scomparsa.
Il mercenario visibilmente agitato fece segno di sbrigarsi. Pinnegiai più forte che potei. Ci infilammo di corsa all’interno del porticato del primo piano, poi sotto a una campana subacquea usata come ingresso.
Usciti dall’acqua mi tolsi velocemente le pinne e l’elmetto con il respiratore e lo seguii attraverso una botola.
Poi di corsa col fiatone su per una stretta scala verticale, una specie di tubo affogato nel cemento armato. Il bombolino ricolmo della miscela che ci dava la vita, attaccato alla schiena, graffiava contro la parete.
Giunsero le vibrazioni dell’onda d’urto che quasi mi fecero cadere, avrei fatto un volo di diversi metri se non fossi stato scaltro nel stringere il corrimano.
Usciti dalla scala di ferro e cemento attraverso una botola, ci trovammo in una sala enorme illuminata da delle luci verdi. Alle pareti si trovavano ancora appesi immensi quadri, preservatesi Dio sa come, per secoli. Carcasse di computer alti due metri occupavano tutta l’area centrale, alcuni di questi ancora pulsanti, vitali. Mi sentii osservato da quelle strane luci rosse e gialle presenti sotto alle bobine di nastro che ogni tanto andavano in rotazione come impazzite.
Ci girammo attorno guardinghi con i fucili pronti a sparare l’arpione, ed entrammo in una saletta completamente rivestita di marmi.
Finalmente il mercenario appoggiò a terra il fucile, le pinne e la sacca impermeabile. Si sganciò la bombola lasciandola cadere a terra di proposito. Il fondo si conficcò in una delle mattonelle di marmo bianco del pavimento.
Si girò e mi fece un cenno che compresi al volo; dovevamo riposarci. Lo imitai togliendo tutto, mi appoggiai con la schiena alla parete di marmi colorati lasciandomi scivolare a terra.
Mi voltai a guardarlo mentre mangiava da una scatoletta di latta, immerso in quella strana luce verde; la sua bruttezza ormai non mi faceva alcun effetto, anzi, mi era diventata famigliare.

(Schizzo Cappella Mantegna?)

Dormii per un tempo imprecisato. Mi alzai mentre il compagno, il vecio, sonnecchiava. Fu allora che vidi, forse dopo essermi abituato a quella strana luce, quel curioso quadro appeso al centro della parete.
Il suo corpo era statuario, come quello di un soldato, probabilmente era un mercenario. Sembrava fatto della stessa consistenza di tutta la pietra della stanza.
I mercenari si erano divertiti a fare del tiro a segno, visto che sul petto, sui fianchi e sulle gambe, aveva conficcati gli arpioni dei fucili di ordinanza.
Mi avvicinai a quel strano guerriero coperto da un unico straccio attorno alla vita, accorgendomi che molte di quelle frecce erano state disegnate tanto bene che parevano vere. Il suo sguardo non tradiva sofferenza, anzi, sembrava dispiaciuto per un suo motivo particolare mentre fissava verso l’alto.

“Ti piace?”
La voce acuta mi fece sobbalzare. Dovevo ancora abituarmi alle strane frequenze che le nostre corde vocali emettevano in atmosfera di elio e chissà cosa.
Mi girai, scrollai le spalle.
“Ho provato anch’io a toglierne qualcuna. Come ti dicevo le aste d’acciaio, e tra un po’ anche gli arpioni, inizieranno a scarseggiare. Ma non c’è stato verso.”
“Metà sono dipinte,” chiarii.
Si limitò a scuotere la testa: non aveva capito. “Andiamo!”

Uscimmo attraverso una camera stagna posta nello stesso piano. Un tempo fu sicuramente una specie di grande terrazza, probabilmente un promontorio sopra il mare. Il colonnato chiuso ermeticamente da fuori, come tutti gli spazi in cui non c’era acqua, ricordava più la trama di un tessuto orientale tanto era leggero e complesso.

Scendemmo a picco per diversi metri, poi girammo l’angolo di una chiesa da cui non partiva alcun tubo, probabilmente implosa e allagata. Entrammo nuovamente attraverso una campana subacquea in una specie di torre, forse un campanile. Prendemmo un montacarichi pneumatico innestato all’interno di un tubo del tutto simile a quelli visti fuori, ma di cristallo.
Quando la porta si aprì mi si tapparono le orecchie. Persi i sensi. Crollai a terra.
Due ceffoni ben piazzati mi fecero rinvenire. La muta mi era stata abbassata fino all’ombelico. Il vecio forse mi aveva salvato la vita.
“Andiamo! Mercenario Diciannove!”
La voce del compagno d’armi si era fatta ancora più strana, avrei voluto chiedergli a che razza di pressione ci trovavamo, o perché non usavamo le condotte per muoverci più agevolmente, ma non lo feci. “Dove sta il nemico?”
“D’ora in avanti, quando saremo in acqua, spara a qualsiasi cosa che vedrai muoversi!”
Caricati i bombolini attraverso dei manicotti che fuoriuscivano da una colonna di acciaio a ridosso del tubo di cristallo, tornammo in acqua nelle tenebre.
I colori ormai non erano più distinguibili e tutto ciò che si vedeva in lontananza appariva come una chiazza verde-scura.
Procedendo affiancando una grossa condotta per una dozzina di minuti, ci infilammo tra i vicoli intricati dell’antica città imperiale.
Procedemmo attorniati da una nuvola di meduse luminose, incuriosite dalla nostra presenza.
Saremmo stati un facile bersaglio, senonché ad un tratto il tappeto urbano sembrò spezzarsi in prossimità di una fossa oceanica. Sotto di noi il vuoto. Scendemmo in verticale finché non fummo quasi completamente al buio.
La pressione schiacciava l’elmo e la cassa toracica, il dolore allo sterno era ormai insopportabile.
Finalmente entrammo dall’alto in quell’intricato groviglio di strette vie e tubazioni. Nonostante l’evidente profondità a cui ci trovavamo, una sorta di debole sottofondo luminoso verde sembrava avvolgere ogni cosa.
Il mercenario portò il fucile pneumatico in avanti, pronto a sparare. Si fermò tenendosi in equilibrio aggrappato ai resti di un ponte di marmo. Indugiò un attimo e vi passò sotto. Ripartì veloce.
Lo rincorsi. Feci di testa mia, e sopra al ponte fui raggiunto da due arpionate che mi mancarono d’un soffio. Uno degli arpioni riuscì a conficcarsi nel marmo!
Ero di nuovo nella terza guerra mondiale!


Procedemmo lentamente pinneggiando costanti ad un metro dal fondale, guardandoci attorno continuamente.
Ai lati, emergevano dalla piana fangosa le facciate di alcuni palazzi sempre interconnessi con quell’intricato sistema di grossi tubi. In corrispondenza a dei ruderi di una torretta, il mercenario si spostò a destra e si avvicinò ad uno di questi, girò attorno a una specie di protuberanza ed aprì un portellone ermetico.
Tirai un sospiro di sollievo, percepivo il mio respiro sempre più affannato, chiaro segnale che a breve avrei esaurito la scorta di miscela.
Prima di infilarvi dentro la testa, il mercenario puntò dentro il fucile e sparò un colpo. Il rinculo fu potente, si ripercosse su tutto il corpo, e mi sembrò persino di percepirne l’onda d’urto.
Recuperò l’arpione tirando a sé la cordina d’acciaio, lo ricaricò, infilò l’arma nell’apertura facendovi sparire dentro tutto il braccio e sparò di nuovo.
Fece per recuperare di nuovo, ma l’asta non volle saperne di tornare.
Si voltò, e nell’oscurità mi fece segno di seguirlo.
Mi avvicinai all’apertura con prudenza. Infilai dentro la testa. Poi feci passare il fucile centodieci e lo appoggiai all’interno della condotta.
Aiutandomi con i gomiti, uscii dall’acqua, col fiatone, affamato di ossigeno mi strappai via l’elmetto.
Guardai la mia guida mercenaria mentre tentava di estrarre l’arpione da un sacco di gomma nera. Mi avvicinai per aiutarlo quando mi accorsi che in realtà era un uomo. Lo osservai in volto. La sua faccia era mummificata, disidratata come una prugna secca. Probabilmente era già morto da mesi.
Il mercenario rinunciò all’arpione, di sicuro conficcatosi in un punto estremamente compatto di quella massa di carne liofilizzata.
Girò attorno l’asta d’acciaio, svitandola dal corpo. Da un marsupio impermeabile levò un tridente e ve lo avvitò sopra.
Ricaricò l’arma, emettendo un urlo distorto dall’elio nell’attimo del massimo sforzo fisico. Fu come udire lo squittio di un ratto gigante.
Procedemmo curvi all’interno del tubo per una decina di minuti finché non ci trovammo in prossimità di una strana imbarcazione. Slanciata e nera, passai la mano sullo strato di polvere; sotto era lucida come uno specchio, stava messa longitudinalmente appoggiata su un fianco.
Ci passammo di lato, le accarezzai quella specie di corna metalliche a più punte, certamente simbolo di un’antica federazione militare o di qualche dio pagano.
Vidi il commilitone armeggiare con un’altra botola, dietro all’imbarcazione, in prossimità della sua pancia nera ancora incrostata di gusci. L’aprì, e con una certa fatica riuscì a passarvi dentro. Lo seguii. A tratti la condotta era talmente stretta da consentirci di procedere in avanti solo strisciando come vermi. Probabilmente eravamo all’interno di uno di quei tubi neri presenti ovunque.
Finalmente arrivammo alla botola opposta. Ruotò il maniglione e si lasciò cadere in giù con le braccia in avanti.
Io, quasi gli caddi sopra.
Eravamo in una stanzetta ben illuminata. L’unica porta presente era quella di un ascensore. Il pavimento era ricoperto di tappeti persiani, alle pareti una dozzina di quadri antichi. Alcuni, similmente a quello strano guerriero trafitto da frecce, erano stati usati come tiro a segno dai mercenari.

(Schizzo de La Vecchia?)

La faccia di una vecchia serva mi stava osservando; voleva che mi avvicinassi a lei.
Le ubbidii; forse era una strega. Non era disegnata né dipinta. Il suo volto sembrava emergere dal nulla grazie a un alchemico miscuglio di colori.
Ardeva dal desiderio di dirmi qualcosa, di dirlo a tutti, non le era rimasto più tempo. Lo capii; stava scritto sul cartiglio che tratteneva nella mano con cui indicava sé stessa come a volersi incolpare per qualcosa. Ripeteva: Col tempo, Col tempo…
Meditai su quelle due semplici parole e per un attimo, mentre la fissavo, ne rimasi catturato. Fui portato in un’altra dimensione di pensiero, di libertà, di nuvole e sole, di leggerezza. La mente va oltre e sopravvive alla carne. Ma poi pensai allo scopo della mia vita, al motivo per cui ero finito nelle profondità abissali; combattere il nemico.
Staccai il quadro e lo osservai da vicino attraverso gli occhi di un’intera umanità per un’ultima volta. Gli sfondai la tela, colpendola ripetutamente col ginocchio.
Levai il guanto di gomma della mano destra e staccai i pezzetti rimasti attaccati alla cornice intarsiata. Accartocciati, li gettai a terra.
Mi pulii la mano sudaticcia sul muro dove stava appeso, lasciandolo imbrattato di quegli stessi colori essenza della sua esistenza. Ora ne osservavo la genesi: il cerchio era chiuso. Poi rimisi la cornice al suo posto e la guardai per un minuto; “Col Tempo, col tempo,” borbottai quasi compiaciuto della mia creazione.
Mi girai impassibile verso il mercenario. Scuoteva il capo perplesso. Non mi aspettavo che comprendesse il significato del mio gesto.
Si assicurò che la botola da cui eravamo entrati fosse ben chiusa. Nella stanza ce n’erano otto, due per parete. Quando pigiò il tasto dell’ascensore la porta si aprì subito.
Entrammo in quello spazio ristretto, foderato di un logoro broccato color bordeaux.
Il meccanismo di movimento era ben diverso dal precedente ascensore. Questo, anziché pneumatico, era azionato da delle corde. Nel momento in cui mi sembrava di aver compreso se stavamo salendo, oppure scendendo ancor più negli abissi, uno scossone in senso inverso sviliva ogni mia supposizione.

Dopo alcuni minuti iniziai a sentire il fetore emanato dal mio compagno d’armi. Sbirciai; teneva la bocca chiusa, e non si era slacciato la muta di gomma. Probabilmente la puzza usciva da quella specie di crepe rugose che si trovava per faccia.
D’un tratto si girò ad osservarmi.
“Metti la sicura al fucile. Appena si aprirà la porta gettalo fuori, assieme ai pugnali e alza prontamente le mani. Mi hai capito?”
Annuii.
Uno scossone mi sorprese proprio in quel momento, il mercenario sapeva perfettamente a memoria non solo l’intricato percorso che avevamo fatto sia nelle condotte che fuori nelle profondità oceaniche, ma anche i tempi di percorrenza dei vari ascensori.
Fui nuovamente sorpreso quando mi accorsi che una porta si stava aprendo dietro di noi. Mi girai di scatto e feci subito scivolare il fucile fuori sul pavimento. Il mercenario mi imitò. Alzammo le mani.

Ci accolse un mercenario sopra a una sedia a rotelle. Al posto delle gambe, amputate sopra alle ginocchia, aveva due pinne metalliche. Le braccia finivano con tenaglie, fiocine e punteruoli innestati nella carne al posto delle mani.
Osservandolo meglio, mi accorsi che nel braccio destro, probabilmente tra l’ulna e il radio, era innestato un piccolo fucile subacqueo munito di arpione.
Metà faccia era fatta dello stesso metallo delle pinne, al posto della bocca aveva un tubo di gomma nera filettato.
Quello strano essere, quasi più meccanico che umano, incastrò le tenaglie nelle ruote spostandosi di lato. Poi ci fece cenno di entrare.
Abbassammo le mani facendo qualche passo all’interno della stanza.
Sopra una branda, tra bottiglie di grappa, riviste pornografiche e casse intere di fiocine ed arpioni, stava seduto un uomo enorme. A differenza di noi, compreso l’essere in carrozzina, non indossava la muta di gomma nera, ma una logora giubba da ufficiale slacciata sul petto fradicio di sudore.
“Spostati Fedor! Vai all’angolo.”
Il mercenario bionico si spostò, estrasse il punteruolo da quella specie di coltellino svizzero che si trovava per mano e iniziò a scalfire la parete.
“Fedor è un pensatore,” mi disse quasi compiaciuto l’enorme ufficiale. Tracannò un sorso di grappa.

Fu in quell’istante, mentre stava messo di profilo attaccato al collo della bottiglia che lo riconobbi; avevo di fronte il mio vecchio comandante.


L’ufficiale mi squadrò serio, poi il suo volto si illuminò.
“Giovincello? Non mi riconosci più?”
Mi prese a sé. Stringendomi forte sul petto unto e bagnato. Chiusi gli occhi mentre sentii i suoi peli d’acciaio graffiarmi il volto.
Poi con una spinta mi fece barcollare facendomi finire contro un sacco nero appeso a una corda, che con mia sorpresa prese a mugolare. Lo osservai meglio: era un uomo in muta, avvolto nella gomma, appeso a testa in giù come un insaccato.
“Ce l’ho fatta, sono riuscito a cavarmela, ero ancora in Brianza quando esplose la bomba ai neutroni. Non mi ha fatto nulla.”
Compiaciuto si scolò un altro sorso di grappa.
“Eccellenza… è… è un onore potere servirla di nuovo,” balbettai.
Mi riprese a sé strattonandomi:
“Bastardo che non sei altro! Sapevo che il mio figlioletto di puttana ce l’avrebbe fatta.”
“Dammi un sigaro!” Ordinò brusco al mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Quando si mosse dalla zona d’ombra dove si era nascosto, realizzai che, incredibilmente, mi ero già dimenticato di lui, e di tutto quello strano percorso negli abissi. Stavo perdendo la cognizione del tempo.
Sbuffando iniziò a tastare con la mano dentro la muta abbassata. Si sentì una lampo aprirsi. Tolse un sigaro, fumato per metà, e lo allungò al comandante.
Questi annuì, lo portò alla bocca leccandolo tutto, come un cono gelato. Poi tirò fuori un massiccio accendino dorato e lo accese tirando delle pesanti boccate.
Ci guardammo impauriti; avremmo potuto saltare in aria per poi essere compressi dall’oceano sopra di noi. Boom! Un unico boato; tutto finito.
Ma il comandate non sembrava fare una piega.
“Mammolette!” Sputò per terra.
“Vi si vede la paura in faccia!” Sputò di nuovo un fiotto marrone da tabacco.
“Come potremmo mai vincere il nemico?” E scatarrò, sputando un’altra volta.
Poi rigirò il sigaro tra le dita, osservandolo con distaccato interesse.

Mi commossi appena ricordai dove avevo già visto quell’accendino dorato.
Era stato prima delle bombe, sulla costa lombarda del Lago di Garda.
Avevamo espugnato al nemico un centro comando che stava all’interno di una favolosa villa con le terme, trasformandola poi, dopo aver ammazzato tutti i militari, in un bordello d’alto rango.
Gli alti ufficiali si premiarono trattenendo ciascuno un bottino d’oro, il mio comandante si accontentò soltanto di quell’accendino.
La villa di piacere immersa tra il verde e le vasche d’acqua termale, pareva un miraggio; era miracolosamente rimasta integra tra il panorama di macerie dei borghi limitrofi.
In pochi giorni si fece un nome, attirando persino ufficiali dell’esercito nemico, travestiti con le nostre uniformi per potervi accedere, sfidando la morte.
Vasche termali, sigari, ostriche decongelate, prosecco e champagne. Belle donne e transgender ancora più belle.
Poi il paradiso finì d’improvviso, quando la guerra da convenzionale passò ad atomica… e lì non ce ne fu per nessuno.

Quasi mi sorpresi a sorridere ripensando a quel periodo.
Osservai di nuovo l’accendino che brillava in mano al comandante. Bene! I bei tempi non erano del tutto andati!
Il comandante si piegò di fianco, mise il sigaro in bocca, allungando il braccio prese un fucile dal pavimento armato d’arpione – una nuvola rossa: sangue nebulizzato – con naturalezza sparò al petto del mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Il soldato rimase fermo per qualche secondo, incredulo, come non avesse capito cosa fosse successo.
L’asta d’acciaio da un metro lo aveva trapassato, strappandogli il cuore per poi conficcarsi nel muro di mattoni dietro di lui.
Dopo qualche secondo il suo corpo cadde a terra; sacco di carne inanimato. L’espressione rimase immutata: incredula.
Il comandante fece cadere il fucile, stancamente, quasi fosse dispiaciuto.
“Fedor!” Ordinò alla creatura ancora intenta a scalfire la parete, “Controlla se ha altri sigari nelle tasche interne o magari delle riviste porno.”
L’uomo bionico si avvicinò al corpo. Piegandosi di lato dalla carrozzina frugò con le dita fatte a tenaglia tra le pieghe della muta. Poi scosse la testa.
Lo prese per il bavero di gomma con una pinza che si trovava per mano, lo alzò con la sua forza meccanica appendendolo alla carrozzina.
Con due dita a forma di trancino, tagliò la sagola che attraversava il corpo del poveretto, poi staccò l’arpione dal muro. Lo ripulì con uno straccio infilandolo in una sacca appesa alla carrozzina.
Se ne andò trascinandosi via il cadavere, lasciando una scia rossa e densa di organelli che si confondevano col pavimento veneziano.
Il sacco nero appeso alla corda contro cui avevo sbattuto, riprese a mugolare versi di terrore.
Il comandante tirò una boccata di fumo, respirandolo a pieni polmoni. La brace si accese all’istante, emanando dei forti bagliori blu. Sì: tra un istante saremmo saltati in aria…
“Che hai pivellino? Paura di bruciare come una torcia vivente?”
“Per niente comandante!” Mi affrettai a ribattere.
“Bene. Bene figlioletto.”
Mi allungò il fucile pneumatico con cui aveva freddato il mercenario.
“La battuta d’arresto del pistone è stata modificata. Se spari fuori dall’acqua non succede nulla, non ti esplode in mano. Sai quante volte l’aria è meno densa dell’acqua marina?”
“Non lo so signore!”
“Quando lo scopri, ci moltiplichi la potenza che ha in acqua. Ti stupirà. Calcola bene la lunghezza del cordino d’acciaio, se spari a vuoto e s’aggroviglia ti strappa via la testa. Sappilo: di oggetti così ne rimangono ancora pochi.”
Espirò quel che rimaneva del fumo di sigaro dopo essere stato filtrato dai suoi polmoni. Mi allungò l’arma.
L’afferrai con rispetto, osservandola come una reliquia. Riannodai il cordino bagnato di sangue e pezzetti organici tagliato dal mercenario.
“Provalo dai!”
Lo guardai stupito.
“Spara al sacco nero!”
Rimise il sigaro in bocca, si alzò, fece ruotare il sacco appeso.
“Sai perché ho ucciso quel mercenario? Perché ora nessuno sa come arrivare fin qui.”
“Certo eccellenza!”
“I mercenari di superficie tendono a passare facilmente al nemico. Ricordalo!”
“E il sacco appeso?”
“Secondo te?”
“È il nemico signore!”
Il comandante annuendo mi allungo un’asta d’acciaio armata di arpioncino.”
“Era uno di noi…”
“Passato al nemico eccellenza?”
Il comandante mi osservò serio:
“Mettiti sull’attenti quando parli con me! Hai capito?”
“Signor sì!” Battei i piedi impettito come avessi avuto i tacchi.
“Peggio! Molto Peggio! Ambiva a diventare colonnello, era uno dei miei fedelissimi. Ma scoprii che non credeva più nell’esistenza del nemico.”
Con una spintarella lo fece dondolare.
“Vuoi diventare tu il mio colonnello?”
Annuii convintamente.
Rise. “Lo sapevo.” Poi sputò.
“Dai! Carica! Fammi vedere se sei ancora una vecchia baldracca da combattimento!”
Presi il fucile. Appoggiai il manico a terra, lo strinsi tra i piedi. Infilai la lunga asta, poi, facendo leva su delle alette saldate vicino alla sommità, lo armai, spingendola dentro, a più riprese.
“Bastano due scatti moccioso. Dosa la potenza. Siamo fuori dall’acqua. O vuoi ritrovarti pezzi d’acciaio conficcati nella faccia?”
Il comandante fece di nuovo ruotare il sacco di gomma. Due occhi spaventati e imploranti pietà spuntarono da una piega.
Il mugolio riprese – plop! – sparai.
Udimmo solo il suono del finecorsa bloccare il pistone, come aprire una bottiglia di spumante.
Il comandante si spostò dietro al sacco nero dondolante. Non emetteva più alcun suono.
Svitò l’asta d’acciaio dal piccolo arpione ricoperto di tessuti organici sanguinolenti. Era rimasto infilzato nella parete di legno. Notai che vicino, tra i buchi, ce n’erano una dozzina rimasti incastrati in profondità.
“Fedor!” Urlò il comandante.
“Sistema tutto. Poi ritorni a scrivere. Noi andiamo!”
L’uomo bionico annuì seccato per poi tornarsene tutto intento a scalfire la parete.
Con la sua manona il comandante mi strinse affettuosamente il collo, avrebbe potuto tranquillamente spezzarmelo.
“Ora usciamo giovincello, e andiamo a combattere il nemico.”

***

Continua… (manoscritto in revisione)

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