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L’ufficiale mi squadrò serio, poi il suo volto si illuminò:
“Giovincello? Non mi riconosci più?”
Mi prese a sé. Stringendomi forte sul petto madido di sudore. Chiusi gli occhi, mentre sentii i suoi peli d’acciaio graffiarmi il volto.
Poi con una spinta mi fece barcollare facendomi finire contro un sacco nero appeso a una corda, che con mia sorpresa prese a mugolare. Lo osservai meglio: era un uomo in muta appeso a testa in giù.
“Ce l’ho fatta, sono riuscito a cavarmela, ero ancora in Brianza quando esplose la bomba ai neutroni. Non mi ha fatto nulla.”
Compiaciuto si scolò un altro sorso di grappa.
“Eccellenza… è… è un onore potere servirla di nuovo,” balbettai.
Mi riprese a sé strattonandomi:
“Bastardo che non sei altro! Sapevo che il mio figlioletto di puttana ce l’avrebbe fatta.”
“Dammi un sigaro!” ordinò brusco al mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Quando si mosse dalla zona d’ombra dove si era nascosto, realizzai che, incredibilmente, mi ero già dimenticato di lui, e di tutto quello strano percorso negli abissi.
Sbuffando iniziò a tastare con la mano dentro la muta abbassata. Si sentì una lampo aprirsi. Tolse un sigaro, fumato per metà, e lo allungò al comandante.
Questi annuì, lo portò alla bocca leccandolo tutto, come un cono gelato. Poi tirò fuori un massiccio accendino dorato e lo accese tirando delle pesanti boccate.
Ci guardammo impauriti; avremmo potuto saltare in aria per poi essere compressi dall’oceano sopra di noi. Boom! Un unico boato; tutto finito.
Ma il comandate non sembrava fare una piega.
“Mammolette!” sputò per terra.
“Vi si legge la paura in faccia!”, sputò di nuovo, un fiotto marrone da tabacco.
“Come potremmo mai vincere il nemico?” e scatarrò, sputando un’altra volta.
Poi rigirò il sigaro tra le dita, osservandolo meglio.
Mi commossi appena ricordai dove avevo già visto quell’accendino dorato. Era stato prima delle bombe, sulla costa lombarda del Lago di Garda.
Avevamo preso una villa con le terme, trasformandola in un bordello d’alto rango.
Gli alti ufficiali si premiarono trattenendo ciascuno un bottino d’oro, il mio comandante si accontentò soltanto di quell’accendino.
La villa di piacere immersa tra il verde e le vasche d’acqua termale, pareva un miraggio; era ancora rimasta integra tra il panorama di macerie dei borghi limitrofi.
In pochi giorni si fece un nome, attirando persino ufficiali dell’esercito nemico, travestiti con le nostre uniformi per potervi accedere, sfidando la morte.
Vasche termali, sigari, ostriche decongelate, prosecco e champagne. Belle donne e transgender.
Poi il paradiso finì d’improvviso, quando la guerra, da convenzionale passò ad atomica… e lì non ce ne fu per nessuno.
Quasi mi sorpresi a sorridere ripensando a quel periodo.
Osservai di nuovo l’accendino che brillava in mano al comandante. Bene! I bei tempi non erano del tutto andati!
Il comandante si piegò di fianco, mise il sigaro in bocca, allungando il braccio prese un fucile dal pavimento, armato d’arpione, e con naturalezza sparò al petto del mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Il soldato rimase fermo per qualche secondo, incredulo, come non avesse capito cosa fosse successo.
L’asta d’acciaio da un metro lo aveva trapassato, strappandogli il cuore per poi conficcarsi nel muro di mattoni dietro di lui.
Dopo qualche secondo il suo corpo cadde a terra; sacco di carne inanimato. L’espressione immutata, incredula.
Il comandante fece cadere il fucile, stancamente, quasi fosse dispiaciuto.
“Fedor!”, ordinò alla creatura ancora intenta a scalfire la parete, “Controlla se ha altri sigari nelle tasche interne o magari delle riviste porno.”
L’uomo bionico si avvicinò al corpo. Piegandosi di lato dalla carrozzina frugò tra le pieghe della muta. Poi scosse la testa.
Lo prese per il bavero di gomma con la tenaglia che si trovava per mano, lo alzò con forza meccanica appendendolo alla carrozzina.
Con due dita a forma di trancino, tagliò la sagola che attraversava il corpo del poveretto, poi staccò l’arpione dal muro. Lo ripulì con uno straccio infilandolo in una sacca appesa alla carrozzina.
Se ne andò trascinandosi via il cadavere lasciando una scia rossa e densa sul pavimento veneziano.
Il sacco nero appeso alla corda, riprese a mugolare versi di terrore.
Il comandante tirò una boccata di fumo, respirandolo a pieni polmoni. La brace si accese emanando dei forti bagliori blu. Sì, saremmo potuti saltare in aria…
“Che hai pivellino? Paura di bruciare come una torcia?”
“Per niente comandante!” mi affrettai a ribattere.
“Bene. Bene figlioletto.”
Mi allungò il fucile pneumatico con cui aveva freddato il mercenario.
“La battuta d’arresto del pistone è stata modificata. Se spari fuori acqua non succede nulla. Sai quante volte l’aria è meno densa dell’acqua marina?”
“Non lo so signore!”
“Quando lo scopri, ci moltiplichi la potenza che ha in acqua. Ti stupirà. Calcola bene la lunghezza del cordino d’acciaio, se spari a vuoto ti strappa via la testa. Sappilo… di oggetti così ne rimangono ancora pochi.”
Espirò quel che rimaneva del fumo di sigaro dopo essere stato filtrato dai suoi polmoni. Mi allungò l’arma.
L’afferrai con rispetto, osservandola come una reliquia.
“Provalo dai!”
Lo guardai stupito.
“Spara al sacco nero!”
Rimise il sigaro in bocca, si alzò, fece ruotare il sacco appeso.
“Sai perché ho ucciso quel mercenario? Perché ora nessuno sa come arrivare fin qui.”
“Certo eccellenza!”
“I mercenari di superficie tendono a passare facilmente al nemico. Ricordalo!”
“E il sacco appeso?”
“Secondo te?”
“È il nemico signore!”
Il comandante annuendo mi allungo un’asta d’acciaio armata di arpioncino.”
“Era uno di noi…”
“Passato al nemico eccellenza?”
Il comandante mi osservò serio:
“Mettiti sull’attenti quando parli con me! Hai capito?”
“Signor sì!”
“Peggio! Molto Peggio! Ambiva a diventare colonnello, era uno dei miei fedelissimi. Poi scoprii che non credeva più nell’esistenza del nemico.”
Con una spintarella lo fece dondolare.
“Vuoi diventare te il mio colonnello?”
Annuii convintamente.
Rise. “Lo sapevo.” Poi sputò.
“Dai! Carica! Fammi vedere se sei ancora una vecchia baldracca da combattimento!”
Presi il fucile. Appoggiai il manico a terra, lo strinsi tra i piedi. Infilai la lunga asta, poi, facendo leva su delle alette saldate vicino alla sommità, lo armai, spingendola dentro, a più riprese.
“Bastano due scatti moccioso. Dosa la potenza. Siamo fuori dall’acqua. O vuoi ritrovarti pezzi d’acciaio conficcati nella faccia?”
Il comandante fece di nuovo ruotare il sacco di gomma. Vidi due occhi spaventati e imploranti spuntare da un’apertura. Il mugolio riprese, quasi un’implorazione.
Sparai.
Udimmo solo il suono del finecorsa del pistone, come aprire una bottiglia di spumante.
Il comandante si spostò dietro al sacco nero dondolante. Non emetteva più alcun suono.
Svitò l’asta d’acciaio dal piccolo arpione ricoperto di tessuti organici sanguinolenti. Era rimasto infilzato nella parete di legno. Notai che vicino, tra i buchi, ce n’erano una dozzina rimasti incastrati.
“Fedor!”, urlò il comandante.
“Sistema tutto. Poi ritorni a scrivere. Noi andiamo!”
L’uomo bionico annuì per poi tornarsene a scalfire sulla parete.
“Ora usciamo giovincello, e andiamo a combattere il nemico.”
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Piaciuto?
(Nel blog trovate le parti precedenti.)