Questo scritto è ispirato al racconto di Friedrich Dürrenmatt La guerra invernale nel Tibet.

***

Procedemmo lentamente pinneggiando costanti ad un metro dal fondale, guardandoci attorno continuamente.
Ai lati emergevano dalla piana fangosa le facciate di alcuni palazzi sempre interconnessi con quell’intricato sistema di grossi tubi. In corrispondenza a dei ruderi di una torretta, il mercenario si spostò a destra e si avvicinò ad uno di questi, girò attorno a una specie di protuberanza ed aprì un portellone ermetico.
Tirai un sospiro di sollievo, sentivo il mio respiro sempre più affannato, chiaro segnale che a breve avrei esaurito la scorta di miscela.
Prima di infilarvi dentro la testa, il mercenario puntò dentro il fucile e sparò un colpo. Il rinculo fu potente, si ripercosse su tutto il corpo, e mi sembrò persino di percepirne l’onda d’urto.
Recuperò l’arpione con la cordina d’acciaio, lo ricaricò, infilò l’arma nell’apertura facendovi sparire dentro tutto il braccio e sparò di nuovo.
Fece per recuperare la punta, ma non volle saperne.
Si voltò, e nell’oscurità mi fece segno di seguirlo.
Mi avvicinai all’apertura con prudenza. Infilai dentro la testa. Poi feci passare il fucile centodieci e lo appoggiai all’interno della condotta.
Aiutandomi con i gomiti, uscii dall’acqua, col fiatone, affamato di ossigeno strappai l’elmetto.
Guardai la mia guida mercenaria mentre tentava di estrarre l’arpione da un sacco di gomma nera. Mi avvicinai per aiutarlo quando mi accorsi che in realtà era un uomo. Lo osservai in volto. La sua faccia era mummificata, disidratata come una prugna secca. Probabilmente era già morto da mesi.
Il mercenario rinunciò all’arpione, di sicuro conficcatosi in un punto estremamente compatto di quella massa di carne liofilizzata.
Girò attorno l’asta d’acciaio, svitandola dal corpo. Da un marsupio impermeabile levò un tridente e ve lo montò sopra.
Ricaricò l’arma, emettendo un urlo distorto dall’elio nell’attimo del massimo sforzo fisico. Mi sembrò di udire lo squittio di un ratto gigante.
Procedemmo curvi all’interno del tubo per una decina di minuti finché non ci trovammo in prossimità di una strana imbarcazione. Slanciata e nera, lucida come uno specchio, stava messa longitudinalmente appoggiata su un fianco.
Ci passammo di lato, le accarezzai quella specie di corna metalliche a più punte, certamente simbolo di un’antica federazione militare o di qualche dio pagano.
Vidi il commilitone armeggiare con un’altra botola, dietro all’imbarcazione, in prossimità della sua pancia nera ancora incrostata di gusci. L’aprì, e con una certa fatica riuscì a passarvi dentro. Lo seguii. A tratti la condotta era talmente stretta da consentirci di procedere in avanti solo strisciando come vermi.
Finalmente arrivammo alla botola opposta. Ruotò il maniglione e si lasciò cadere in giù con le braccia in avanti.
Io, quasi gli caddi sopra.
Eravamo in una stanzetta ben illuminata. L’unica porta presente era quella di un ascensore. Il pavimento era ricoperto di tappeti persiani, alle pareti una dozzina di quadri antichi. Alcuni, similmente a quello strano guerriero trafitto da frecce, erano stati usati come tiro a segno dai mercenari.

La faccia di una vecchia serva mi stava osservando; voleva che mi avvicinassi a lei.
Lo feci. Non era disegnata, né dipinta. Il suo volto sembrava emergere dal nulla grazie a un alchemico miscuglio di colori.
Ardeva dal desiderio di dirmi qualcosa, di dirlo a tutti, non le era rimasto più tempo. Lo capii; stava scritto sul cartiglio che tratteneva nella mano con cui indicava sé stessa come a volersi incolpare per qualcosa. Ripeteva: Col tempo, Col tempo…
Meditai su quelle due semplici parole e per un attimo, mentre la fissavo, ne rimasi catturato. Fui portato in un’altra dimensione di pensiero, di libertà, di nuvole e sole, di leggerezza. La mente va oltre e sopravvive alla carne. Ma poi pensai allo scopo della mia vita, al motivo per cui ero finito nelle profondità abissali; combattere il nemico.
Staccai il quadro e lo osservai da vicino attraverso gli occhi di un’intera umanità, per un’ultima volta. Gli sfondai la tela, colpendola ripetutamente col ginocchio.
Levai il guanto di gomma della mano destra e staccai i pezzetti rimasti attaccati alla cornice intarsiata. Accartocciati, li gettai a terra.
Mi pulii la mano sudaticcia sul muro dove stava appeso, lasciandolo imbrattato di quegli stessi colori essenza della sua esistenza. Poi rimisi la cornice al suo posto e la osservai per un minuto; “Col Tempo, col tempo,” borbottai.
Mi girai impassibile verso il mercenario. Scuoteva il capo perplesso. Non mi aspettavo che comprendesse il significato del mio gesto.
Si assicurò che la botola da cui eravamo entrati fosse ben chiusa. Nella stanza ce n’erano otto, due per parete. Quando pigiò il tasto dell’ascensore la porta si aprì subito.
Entrammo in quello spazio ristretto, foderato di un logoro broccato color bordeaux.
Il meccanismo di movimento era ben diverso dal precedente ascensore. Questo, anziché pneumatico, era azionato da delle corde. Nel momento in cui mi sembrava di aver compreso se stavamo salendo, oppure scendendo ancor più negli abissi, uno scossone in senso inverso sviliva ogni mia supposizione.

Dopo cinque minuti iniziai a sentire il fetore emanato dal mio compagno d’armi. Sbirciai; teneva la bocca chiusa, e non si era slacciato la muta di gomma. Probabilmente la puzza usciva da quella specie di crepe rugose che si trovava per faccia.
D’un tratto si girò ad osservarmi.
“Metti la sicura al fucile. Appena si aprirà la porta gettalo fuori, assieme ai pugnali e alza prontamente le mani. Mi hai capito?”
Annuii.
Uno scossone mi sorprese proprio in quel momento, il mercenario sapeva perfettamente a memoria non solo l’intricato percorso che avevamo fatto sia nelle condotte che fuori nelle profondità oceaniche, ma anche i tempi di percorrenza dei vari ascensori.
Fui nuovamente sorpreso quando mi accorsi che una porta si stava aprendo dietro di noi. Mi girai di scatto e feci subito scivolare il fucile fuori sul pavimento. Il mercenario mi imitò. Alzammo le mani.

Ci accolse un mercenario sopra a una sedia a rotelle. Al posto delle gambe, amputate sopra alle ginocchia, portava due pinne metalliche. Le braccia finivano con tenaglie, fiocine e punteruoli innestati nella carne al posto delle mani.
Osservandolo meglio, mi accorsi che nel braccio destro, probabilmente tra l’ulna e il radio, era innestato un piccolo fucile subacqueo munito di arpione.
Metà faccia era fatta dello stesso metallo delle pinne, al posto della bocca aveva un tubo di gomma nera filettato.
Quello strano essere, quasi più meccanico che umano, incastrò le tenaglie nelle ruote spostandosi di lato. Poi ci fece cenno di entrare.
Abbassammo le mani facendo qualche passo all’interno della stanza.
Sopra una branda, tra bottiglie di grappa, riviste pornografiche e casse intere di fiocine ed arpioni, stava seduto un uomo enorme. A differenza di noi tutti, compreso l’essere in carrozzina, non indossava la muta di gomma nera, ma una logora giubba da ufficiale slacciata sul petto fradicio di sudore.
“Spostati Fedor! Vai all’angolo.”
Il mercenario bionico si spostò, estrasse il punteruolo da quella specie di coltellino svizzero che si trovava per mano ed iniziò a scalfire la parete.
“Fedor è un pensatore,” mi disse quasi compiaciuto l’enorme ufficiale. Tracannò un sorso di grappa.
Fu in quell’istante, mentre stava messo di profilo che lo riconobbi; avevo di fronte il mio vecchio comandante.

***

Piaciuto?

A venerdì prossimo. 🙂