Premessa

Torno a pubblicare le avventure di Anna la organista.

Due parole per chi si avvicina per la prima volta a questi racconti.

Si tratta di una narrazione scritta di getto al momento della pubblicazione o poco prima.

Non seguo nessun filo conduttore e lascio che la trama s’intrecci da sola seguendo l’istinto.

Cerco di scrivere in modo chiaro e semplice,  desideroso che storie e concetti a volte non immediati arrivino a tutti, o quasi.

Giustamente, chi non volesse trovarsi catapultato all’inizio del secondo libro di una narrazione già iniziata, può leggere di seguito la trama del I volume: MELODIA INEFFABILE o visitare la pagina dedicata QUI.

Buona lettura

Andrea Perin

TRAMA: LA ORGANISTA – MELODIA INEFFABILE

Anna è una famosa organista, ormai non più giovanissima, anche se forse non ha ancora raggiunto l’apice del successo.
È single e vive sola, conseguenza di una vita interamente dedicata alla musica.
Forte, decisa, implacabile, quasi divina seduta all’organo, ma fragile quanto noi nella vita di tutti i giorni.
Quando non è via per concerti, vive a Venezia, la città che ama. Ed è proprio nella città magica che inizieranno ad accaderle degli strani avvenimenti, a partire dal giorno in cui dovrà esibirsi per il funerale di un suo grande estimatore, il signor Barone, conosciuto molti anni prima anche nell’intimità.
Il thriller inizia proprio quello stesso mattino, con la feroce e inspiegabile aggressione ai danni di Giulio, suo amico e dirimpettaio nel palazzo sul Canal Grande, seguita dall’ingresso di malintenzionati anche nel suo alloggio.
Dopo alcuni giorni e i numerosi eventi insoliti accadutegli, ragionando con l’amico risvegliatosi dal coma, Anna capirà che dietro all’aggressione si nasconde ben altro di poco chiaro, in qualche modo collegato alla meravigliosa quanto ineffabile melodia percepita proprio a partire da quel giorno.

 

LA ORGANISTA  II  –   Primo episodio

*****

I

Isola di San Michele.
È il camposanto dei veneziani e anche di alcuni stranieri innamorati della città che per meriti particolari vi sono stati seppelliti.
Ci sono tombe di poeti, di pittori, di musicisti e di scienziati di fama mondiale. Tutti avevano in comune una cosa; erano da fuori. E amavano talmente questa città, d’anelare, (forse in un ultimo desiderio), d’esserci seppelliti per sempre.
Ovviamente, ci sono anche le tombe dei comuni mortali, e di tutte quelle persone che hanno lottato semplicemente per vivere, magari morendo per aiutare se stessi, la famiglia o anche la patria.
Ma queste ultime non rimangono per sempre, fra trent’anni, se nel frattempo questo cimitero galleggiante non sarà sprofondato in mare, di tutte queste lapidi non rimarrà più traccia.
Sono convinta però, che il colosso di marmo e cemento dove ho appena appoggiato due rose scarlatte come le amava lui, rimarrà, forse in eterno.
In verità ho dovuto quasi lanciarle, sporgendomi dal cancelletto che chiude l’enorme tomba di famiglia circolare, una piccola cappella sorta come un fungo sul prato dell’isola.

Anni fa, mentre ero a Praga per un concerto, passammo una notte nell’attico di un suo palazzo.
In quell’occasione, il signor Barone mi aveva accennato alla tomba di famiglia sull’Isola di San Michele, dopo avermi trovata ad osservare il quadro del bozzetto originale; un fantasioso studio architettonico di un noto artista dell’epoca.

Mi sporgo ancora dal cancelletto, cercando di leggere qualche nome tra i lunghi epitaffi; forse tra questi c’è il responsabile del ritorno dei cavalli di San Marco…

Un suo illustre antenato aveva fatto qualcosa di molto importante per Venezia… ora che ci penso bene, non so nemmeno se sia sepolto qui o in qualche altra parte della città.
Non ricordo quando me ne aveva parlato, ma rammento che per lui la cosa era davvero importante.
Mi aveva raccontato la storia dei cavalli sopra la Basilica di San Marco, la quadriglia, o quadriga come la chiamava lui, di quanto il loro valore andasse ben oltre le sculture in sé stesse, ma da ricercarsi nel significato simbolico.
Li aveva voluti a tutti i costi Napoleone Bonaparte, per il suo arco di trionfo al Louvre, facendosi odiare non poco. Ricordo io stessa di aver visto in alcune stampe dell’epoca, il popolo infuriato opporsi con forza alla loro rimozione… [poveretti, ci siamo proprio fatti abbindolare.]
Poi il sogno imperiale d’oltralpe finì, effimero, e per mano austriaca i cavalli ritornarono sopra San Marco e i francesi se ne fecero una ragione accontentandosi delle copie.
Anche i veneziani li avevano ”prelevati”, forzatamente, nel ‘200, ma quando sollevavo questa obbiezione, il signor Barone diceva che ”facevo meglio” se prima studiavo la storia, magari quella personale di Enrico Dandolo, (il doge responsabile del sacco di Costantinopoli), e poi cercassi di cogliere il fascino della grande storia scritta da una piccola colonia di periferia sorta nel fango, ma che poi ha deciso le sorti di uno degli imperi più longevi e potenti del pianeta.
Quei cavalli, da una tonnellata di rame ciascuno, rappresentano il potere, diceva serio.
Ogni volta che vengono spostati, ne segue una fluttuazione cosmica… e questo il generale Buonaparte lo sapeva.

Lo indicava col cognome originale, di battesimo, Buona-parte, come se nel cambiarlo si celasse un peccato di vanità, o peggio, un’insicurezza.
E io mi mettevo a ridere, divertita da quanto tutto questo discorso ammantato di mistero e magia, suonasse strano pronunciato dal membro di una nobile dinastia di banchieri austriaci.

“Ciao Anton,” deposito un bacio sul palmo della mano; “e comunque, se adesso riposi in un posto così bello, lo devi a lui.” E glielo soffio, con le lacrime agli occhi.
Mi guardo attorno, accorgendomi solo ora dei cipressi che dondolano per le forti raffiche;
“Oggi ti suono qualcosa. Ci penserà il vento a portartene le note. Va bene?”

Più di un anno fa, mi ero esibita per il funerale dell’amico scomparso nel bel mezzo di un susseguirsi di eventi curiosi, tragici e apparentemente inspiegabili.
Di quei giorni turbolenti, porto con me ciò che rimane della melodia ineffabile scoperta da Anton, il signor Barone, che tanto ha influenzato il mio stile musicale, ma anche, il frutto della notte di passione vissuta col mio collega d’oltreoceano, Peter Mc Aeron, ancora del tutto ignaro di avere un figlio.

L’ho chiamato Antonio, in memoria del Barone e guarda caso anche del grande compositore Vivaldi, che tanto ha stimolato la mia fantasia di musicista in quei giorni.
Probabilmente, le poche note della melodia ineffabile che ho in testa, sono quelle originariamente concepite dal grande violinista, e forse, la leggenda della musica scritta sull’acqua, la melodia tanto agognata dal diavolo in persona, ha una sua verità.
Nel ripensare a quei giorni, delle volte ho la sensazione che davvero si sia manifestata la presenza di una forza oscura.
Persino gli inquirenti sono rimasti perplessi, tormentati dal dubbio che dietro agli atti criminali di quella coppia diabolica, non potesse nascondersi soltanto il desiderio di impossessarsi di un paio di calze d’alta fattura. E in effetti, noi tutti, non ci saremmo mai aspettati un simile epilogo.

Suona il telefono proprio quando il vaporetto sta per staccarsi dal pontone, il pontile galleggiante. Lo prendo dalla borsa, tenendolo ben stretto. Non conosco il numero, ma immagino chi possa essere.
“Salve Lucia, mi dica tutto?”
“Sì, tra un’ora sarò a casa.”
“Va bene, glielo dia pure, ma tiepido.”
“Lo so che non mi devo preoccupare, ci mancherebbe.”
“Grazie, a dopo.”

Rimango in piedi, con la mano sinistra ben salda sulla mensola fissata alla cabina di comando, mentre con l’altra cerco di salvare in rubrica il numero di Lucia, la balia che sto assumendo a tempo pieno.
È una professionista blasonata da referenze eccellenti, l’averla trovata disponibile è stato un bel colpo di fortuna.
Si sta occupando del piccolo Antonio come fosse un figlio, anzi, meglio, visto che riesce a rimanervi emotivamente staccata quel tanto che basta per non farsi fregare… sembra impossibile quanto già da piccoli, capiscano su che leve agire per ottenere tutto quello che vogliono.

Mario, il mio agente, in questo anno si è comportato come un vero amico, offrendosi di fare da padrino al piccolo, nel caso mi decidessi di battezzarlo.
Non che non lo voglia fare, ma al momento la trovo quasi una forzatura soltanto per compiacere gli altri.

Metto via il telefono e mi appoggio coi gomiti sul corrimano a contemplare la bellezza della laguna d’autunno.
Il viaggio è brevissimo, e in un attimo mi ritrovo sulle Fondamenta Nuove.

Faccio un salto al bar che conosco per un caffè.
Con mia sorpresa m’imbatto in Mario, seduto in un angolo, da solo, tiene in mano il giornale locale.
L’osservo, mentre mi avvicino al bancone, ma non si decide ad abbassare il quotidiano.
Perfino quando ordino: “Un caffè, grazie!”, non fa una piega.
Faccio spallucce, sono proprio curiosa di vedere cosa sta combinando.
Arriva la tazzina bollente, guarnita dal bel sorriso del barista. Ne assaporo l’aroma… finalmente.

Questo, è uno dei miei primi espressi dopo tanto tempo, non parliamo di altre privazioni alimentari che ho dovuto accettare per la gestazione.
Dicono che le cose, fin che non si provano, non si possono capire a fondo; il bambino fin che non si scotta per davvero, non potrà mai intuire la pericolosità della fiamma.
Stesso vale per gli uomini: fin che non saranno loro a fare dei figli, non si renderanno mai conto dei sacrifici, ma sopratutto, delle tante privazioni quotidiane a cui ci dobbiamo sottoporre.

Smetto di suonarmela e cantarmela da sola, e finisco il caffè trattenendone in bocca l’ultimo sorso.
Osservo Mario che ancora non mi degna di uno sguardo, biasimandolo, come fosse naturale riversare su di lui la mia collera, (spero momentanea), nei confronti dell’altro sesso sovente facilone.
Mi accorgo che sta sorridendo, quando d’improvviso inizia a leggere ad alta voce.

“Non si hanno più notizie di Anna, ormai da un anno. La celebre organista veneta, ops! Perdonino, veneziana, sembra scomparsa da tutti i palinsesti concertistici internazionali.
Mentre i colleghi d’oltreoceano e alcuni fenomeni emergenti orientali godono di questo momento benevolo per la musica organistica, ricavandone successo e fama, e, ricordando la massima romana pecunia not olet, sopratutto ingaggi milionari, l’adorabile quanto dirompente Anna, al contrario, sembra non avere più alcuna necessità di tipo finanziario, nemmeno per mantenere il suo modesto appartamento sito sul Canal Grande, a ridosso del Ponte di Rialto…”
Scoppio a ridere, ancora col caffè in bocca, quasi sputandolo addosso a Mario proprio nel momento che abbassa il giornale.
“Ma va là! Fai vedere!”
Glielo strappo di mano, sulla sinistra ci sono i necrologi, sulla pagina di destra la pubblicità di uno sciampo.
Mario sorride; “Sai, non sarebbe una notizia così strana.”
Mi siedo di fronte a lui, divaricando le gambe e cingendo le sue; il posto a sedere è veramente stretto.
C’è un attimo d’imbarazzo appena ci sfioriamo, ma io mi faccio seria, ovviamente solo per schernirlo:
“E così mi fai la posta adesso?”
“Beccato.”
Mario si sporge per ordinare due bicchieri d’acqua al proprietario del locale dietro al banco. Poi si risistema;
“Naturale giusto?”
“Intendi l’acqua, oppure che mi stai seguendo?”
Mario si fa serio: “Che dici? Sei pronta?”
Appoggio i gomiti sul tavolo, unisco le mani sui polsi, a ”V” e ci appoggio dentro il mento. Lo fisso:
“Dammi ancora un mese.”
“Un mese?!”
Mario è stupito, non se l’aspettava, poi continua:
“Tra poco finirà il festival internazionale, l’hai saltato anche l’anno scorso, ti avrebbe fatto bene. Come tuo agente ti consiglio di non mancare, almeno per il finale, anzi, fossi in te, inizierei già da oggi a sedermi alle tastiere.”
“Sì, va bene, ” lo rassicuro mortificata.
“Davvero?”
Me lo chiede con entusiasmo, come se lo facessi solo per lui… glielo lascio credere? Vediamo come si comporta.
“Sì, lo faccio. Se non mi credi oggi fai un salto a sentirmi.”
Mario mi osserva, pensieroso:
[Ma a chi la dai a bere Anna? Suonerai per lui, il Barone… Lasciagli pure credere d’essere un boccalone, l’importante è che ritorni a suonare.]
“Certo, ci verrò, ma non per controllarti.”
“Va bene, alle quattro allora. Per il luogo preciso ti mando un messaggio prima di suonare, tanto ti vedo in gran forma, non ci metterai molto a spostarti da un organo all’altro.”
“Vuoi che mi metta a correre in giacca e cravatta tra le calli piene di turisti?”
“Va bene. Va bene… Sarò a San Marco. Ok?!”, esclamo spossata.
“Lo farai per lui, vero?”
“Perché dici questo?”
“Perché vuoi rimanere da sola.”

Mi si appanna la vista, faccio scivolare le mani sul viso e protetta da sguardi indiscreti mi lascio scappare un singhiozzo.
“Dai Anna, non fare così… scherzavo. Non volevo… Fa come credi, l’importante è che ti risiedi all’organo. A sei mesi di gravidanza hai fatto un concerto memorabile, Anna due punto zero doppia tutti, avevano scritto, ora, che ti sta succedendo?”
Mi faccio forza con un bel respiro e lascio aprire i palmi inumiditi con l’aiuto del gesto di Mario che mi afferra la mano.
“Sai? Non pensavo potesse mancarmi così tanto.”
“Immagino.”
“No, non credo,” gli rispondo seccamente.
Lui abbassa lo sguardo, mortificato.
Mi accorgo d’averlo trattato male;
“Intendo… non ci siamo visti spesso, ma quelle poche volte ci siamo molto amati, a modo nostro, e il fatto che lui non ci sia più… mi atterra.”
Mario si guarda attorno, forse è imbarazzato. Ma poi ferma il cameriere chiedendogli dei fazzoletti di carta. È veramente preoccupato.
“Anna, mi fa male vederti così.”
“Che poi… quello stupido,” continuo con un singhiozzo, “mi ha lasciato scritto che avrebbe aspettato in eterno la mia musica trasportata dal vento.”

Rimaniamo in silenzio guardando fuori; una folata fa sbattere le imposte del locale.
“Capisco Anna… le note portate dal vento. Proprio oggi,” scuote la testa; “sembra che l’abbia fatto apposta.”
Mi asciugo le mani con uno dei fazzoletti di carta, poi ne sfilo un altro e mi asciugo le guance.
Osservo Mario, s’è rattristito per causa mia. Mi sento in colpa. Provo una battuta:
“Visto che la indovino sempre col trucco acqua e sapone?”
Sorridiamo.

“Anna, tu hai bisogno di uno scopo a breve termine, uno stimolo, ti iscrivo per il prossimo concerto del Callido Festival… lo so; è già tutto programmato e sono molto professionali per non dire zelanti, ma se lo fai per passione saranno ben disposti a ospitare una guest star del tuo livello. Va bene?”

[Con passione, Mario intende gratuitamente. A volte mi parla proprio come un agente… Ma che stupida? È il mio agente!]

“Va bene, suonerò… dove?”
“A San Giorgio.”
“Intendi l’isola?”
“Sì, certo. A che pensavi? Ai Greci?”

Non che la cosa mi spaventi, ma la Basilica di San Giorgio non è un posto così alla mano come la dà da intendere Mario. È il cuore della Fondazione Cini, voglio dire; lì ci hanno fatto diversi incontri i grandi della terra, in piena guerra fredda, lì a fianco ci hanno suonato i Pink Floyd in uno dei concerti più importanti del ‘900…
Non mi va di tornare a suonare, dopo mesi, col pensiero che tra il pubblico ci possa essere un presidente, un ministro o qualche critico di fama mondiale.

“A che pensi Anna?”
“Ci sto! Ma mi metti in cartellone come guest star… a sorpresa.”
Mario ride. “Me l’aspettavo.”
“Certo, sei il mio agente, quindi devi esser sveglio e conoscermi.” Gli faccio l’occhiolino.
Mi accarezza la mano;
“No, non è quello, è che probabilmente nutro più fiducia io di te, nelle tue capacità.”
Rimango impassibile mentre lo fisso in attesa della sua risposta.
“Va bene Anna, hai vinto. Guest star… a sorpresa!”

Mi alzo, divaricando le gambe indolenzite, finalmente.
Avviandomi verso il bagno, mi allungo la gonna del tubino sopra gli stivali.
Mi sento osservata, così mi giro verso Mario mentre mi studia incuriosito;
“Cosa c’è ancora, Anna?”

Non so che mi prende, ma con naturalezza compio un gesto allusivo, o forse seducente, ma comunque non banale.
Porto l’indice alla bocca mordendolo sull’unghia mentre l’osservo sbarazzina col capo piegato di lato. Poi indico gli stivali.
“Ho capito. Certo; li potrai tenere.” Mi dice imbarazzato.
[Cavoli Anna. Sicuro come il sole che non ci ricasco… ma vacci a piano!]

Torno dalla toilette mentre il mio nuovo telefono diffonde le note de La Tempesta in tutto il piccolo locale.
Mario abbassa il giornale indicandomi la borsa.
Poi guarda fuori, annuendo; “Azzeccata!”
Guardo il display, è Lucia.

“Devo scappare Mario, sono in ritardo.”
“Come va con la baby-sitter?”
“Per carità, non farti sentire a chiamarla così. È una educatrice, una balia.”
“Siamo nel ventunesimo secolo Anna.”
“Chiamala solo per nome preceduto da signorina, mi raccomando.”
“Va bene,” mi risponde Mario alzando le mani; “Scusa! Allora dimmi come si chiama.”
“Lucia. Lucia Lam-”
“Anche lei?” m’interrompe Mario.
Rimango bloccata, confusa, per tre secondi. Poi rifletto.

Non avevo collegato il suo nome a quello della cara Lucia, la signora che mi teneva in ordine l’appartamento sul Canal Grande. Chissà che fine avrà fatto?
È sparita, uscita dalla mia vita proprio al culmine di quei fatti orribili ma anche così incredibilmente stimolanti accadutemi l’anno scorso.
Dopo averla chiamata inutilmente non so per quante volte, ho chiesto in giro, partendo dal portiere del nostro palazzo, se non altro per pagarle le ultime ore.
Qualcuno mi aveva detto di un suo lavoro in terraferma ma nessuno sapeva dove abitava quando viveva a Venezia.
Mi era così cara, e non sapevo nemmeno dove viveva…

“Anna, tutto a posto?”
“Sì, scusami, pensavo a Lucia.”
“Non l’hai più rivista, vero?”
“No, credevo mi venisse a trovare, almeno dopo il parto… due fiori, ‘na ciacola. Niente.”
Mario mi accarezza il viso, premuroso;
“La mia Anna…”
“Che c’è?”
“Sai essere così pronta e sveglia quando serve, ma delle volte…”
“Sì, sono pragmatica, se m’impegno. Ma? Che vuoi dire?”
“Dico che ti aspetti sempre qualcosa dalle persone, se non altro per riconoscimento ai tuoi affetti o alle tue premure, ma il mondo non va così, mi dispiace.”
Faccio spallucce, (sono pragmatica). Mi alzo per uscire:
“Che ci vuoi fare: credo nel karma.”
“Come vuoi Anna… Ah, te lo pago io il caffè!”
Mi giro, mentre apro la porta:
“Visto?” Gli strizzo l’occhio: “Lo paga il karma.”
Mario scuote la testa, sorridendomi: “Stu-dia!”

Che razza di vento; devo stare attenta a che non mi cadi un vaso di fiori in testa.
Non vedo l’ora di essere a casa per farmi un buon cappuccino assieme al mio piccolo Antonio.
Mi piazzo nel centro della calle, mentre la percorro velocemente, col naso all’insù, facendo gli scongiuri di non essere colpita da un vasetto di basilico o da una statuina votiva.

D’improvviso appare la candida e solenne facciata dei Gesuiti, proprio quando il cielo si fa scuro, coperto da neri cumuli-densi a perdita d’occhio.
I marmi bianchi luccicano sullo sfondo grigio e nero sopra la laguna, mentre il tratto di mare vicino alle fondamenta, schiumoso e lucente, ribolle colpito da sole, come volesse saltar fuori minaccioso a ricordarci che in fondo qui è tutto suo, e che quello che vediamo e viviamo di questa città, è una sua concessione che prima o poi potrebbe finire.

*****