Il diario di Anna

 

Di seguito potrete leggere gratuitamente il diario di Anna La Organista III.

Il testo non è editato e corretto, fate conto di leggere un manoscritto prima stesura.

Commenti o segnalazioni sono più che graditi.  Ho aggiunto qualche schizzo tra le righe; rielaborazioni grafiche di mie foto.

Non mi va d’infarcire il testo di banner pubblicitari o link su dove acquistare gli altri due volumi della collana. Chi desidera anche solo informazioni può trovare tutto in questo sito; in fondo alla pagina potete cliccare sulle due copertine, o può semplicemente googlare La Organista.

Buona lettura!

*****

Mi giro e rigiro nel letto ormai da ore.
Sbircio speranzosa per l’ennesima volta verso le imposte socchiuse; ma il mattino non sembra mai arrivare.
Non riesco a dormire.
Non ho sonno, e le lenzuola sempre più appiccicose e pesanti iniziano a soffocarmi.
Non è colpa del jet lag, il mal di fuso; per un anno ho girato mezzo mondo in tournèe senza mai soffrirne.

Accidenti!
Tutta colpa di questa canzoncina che ho in testa, sentita per caso tre mesi fa.
Niente di speciale, alla base c’è un trucchetto sonoro usato da molti compositori in passato.
Si fanno rincorrere due melodie, una delle due è ascendente e così sembra che il motivetto non finisca mai di salire.

Adesso non ridete: mai io posso chiudere l’udito per qualche istante e non sentire, così come i comuni mortali posso chiudere le palpebre.
È un dono che ho sempre avuto, e fin da piccola quando un suono improvviso mi spaventava lo ovattavo con questo sistema.
Provateci! Magari con un po’ di impegno ci riuscite anche voi.
Assomiglia vagamente al gesto che si compie per stapparsi le orecchie usando i muscoli della mandibola quando si scende dalla montagna.

Ma con questa maledetta melodia non funziona!
Sta nella mia testa e non se ne vuole andare.
Riesco a fermarla per qualche istante con un gesto simile, facendo schioccare delle mandibole mentali, non chiedetemi come, ma poi riparte subito continuando a salire sempre più in alto… all’infinito.
Lo so, è soltanto un’allucinazione uditiva, ma che prevarica sui miei pensieri quando la mente è a riposo, o quando vorrei che lo fosse, quando mi sdraio in barca e chiudo gli occhi, o magari quando sono a letto per dormire.

Passerà!
Così almeno mi ha diagnosticato un famoso neuroscienziato in Romania, tra l’altro innamorato della nostra Venezia che visita una volta all’anno, appena passati gli eccessi del carnevale.

È un processo mentale simile al tinnitus, quel fastidioso fischio che sentiamo in testa e non se ne vuole andare. Bisogna farci un po’ l’abitudine e cercare di dimenticarlo. Via-via diverrà un rumore bianco, non fastidioso, e poi sparirà una volta abituatici… appunto. Ma quanto ci vuole?

Basta!
Calcio le coperte in fondo al letto, facendole cadere capovolte a terra.
Mi alzo, esco dalla camera e vado nel salone senza accendere le luci.
Apro le tende con un gesto irrequieto, quasi violento.
La via più bella del mondo stamane è proprio grigia, sicuramente pioverà.
Mi preparo una tazzona d’espresso, l’equivalente di tre cialde.
Mi metto al portatile, senza accendere le luci, ancora svestita.
Curioso navigando in rete, in cerca di informazioni sul mio recente disturbo…
DRIN-DRIN! Un messaggio di posta con degli allegati.
Sono foto di Antonio, il mio piccolo che non vedo da un mese. Con lui l’educatrice Lucia, che quasi-quasi sembra sorridere.
Ancora una settimana e potrò riabbracciarlo. Gli mando un bacio, come potesse vedermi.
Finito il caffè mi faccio un bel bagno caldo con disciolti in acqua ben due chili di sale marino alimentare.
Ma il felice momento viene guastato dal motivetto ridondante, sì, ancora quello, udito per la prima volta in quella cupa cattedrale gotica. Eccolo che inizia e sale, sale, sale. Sale sempre più su, senza mai fine, finché chiudo le orecchie, alla mia maniera, e sparisce per qualche secondo. Poi riparte a salire, sempre di più… “Anna! Devi parlane a qualcuno, magari a Mario, altrimenti impazzisci!” Rimprovero me stessa a voce alta.

***

Scendo in calle, l’aria è frizzante e sa di mare… accidenti se mi mancava. Me ne rendo conto solo ora.
Vado a passo veloce; in questi mesi di tournée ho camminato molto per tenermi in forma e distrarmi. Ho anche praticato la camminata nordica, quella coi bastoni da sci, una vera toccasana.

Usarli a Venezia però mi fa un che; mi sentirei ridicola.
Magari mi prendo mezza giornata e vado al Lido, o perché no? sull’Isola di Pellestrina che è lunghissima e stretta. Da una parte si scorge il mare, dall’altra la laguna.

Eccomi sotto al palazzo dove ha l’ufficio il mio agente Mario.

“Anna. L’hai sentita l’ultima?”

Mario sbatte sul tavolo la rivista musicale di carta lucida che teneva di fianco alla tastiera del computer.

Riconosco la copertina, l’ho vista sul carrellino dei giornali in aereo.
L’afferro sfogliandola distrattamente, ma la vista si deve ancora abituare alle cupe atmosfere dell’ufficio del mio agente, per sua stessa ammissione, ispirato alle scenografie di una serie cult dell’uomo pipistrello.

Poi, tra le folte righe nere di parole che non riesco ad afferrare, compare un riquadro con l’immagine del volto guascone di Peter Mc Aeron, il celebre organista.

Devo ammettere, con onestà, che un fugace guizzo scuote il mio cuore che ora inizia a pompare più forte e deciso.
Percepisco le guance surriscaldarsi, probabilmente sto arrossendo, ma non voglio che Mario noti questa mia reazione, mi metterebbe terribilmente a disagio…

“Ti faccio più luce Anna? Apro le tende?”
“No-no, va bene così.”
“Te lo leggo io?”
“Sì, grazie… per cortesia.”

Mario si allunga sulla scrivania verso di me, riprendendosi la rivista.
Non lo osservo direttamente in volto, ma sono sicura che mi sta guardando per capire che sta passando per la mia testa in questo istante.

Si schiarisce la voce:
“Preferisci in lingua originale o in italiano?”
“Come vuoi Mario,” alzo la mano annoiata.
“Mm… meglio se te lo traduco, va’!”

“Allora… Il grande organista Mc Aeron, una sorta di rock star della musica classica, è ricoverato nel reparto di rianimazione di Atlanta Georgia, dopo aver tentato il suicidio…”

Di nuovo un brivido nel petto:
“O santo cielo!”
“Calma, sta bene… nel senso che è vivo.”
Annuisce, “Posso continuare? Vuoi un po’ d’acqua?”
“No, dimmi tutto, ti prego!”

Mario si strofina le meningi mentre osserva la rivista appoggiata sulla scrivania:
“In pratica, sta scritto che è stato colto da una forma di depressione, circa due anni fa, dovuta a una sorta di incapacità di concentrazione…”
“Chi? Peter?! Non ci posso credere!”
“Pare così…”

Mario muove la testa nell’inequivocabile gesto di chi sta leggendo mentalmente molto veloce.
“Sì, una rivista di gossip, imputa questa sua caduta rovinosa al matrimonio di un suo amico, che probabilmente ha sposato la donna di cui era segretamente innamorato… Haa!”
Mario alza lo sguardo sorridendomi compiaciuto:
“Lo sai dove?”
“Sì… a Venezia.”

Ovviamente si sta parlando del matrimonio in cui ho conosciuto il divo americano e poi combinato quel disastro cadendo a terra strappando i tendoni…

“Adesso come sta?”
“Non si capisce bene dall’articolo… ma sembra fuori pericolo.”

Mi porto le mani sul viso:
Peter… Peter… che pensare di te? Mi eri piaciuto così tanto e poi ti sei rivelato così… così superficiale.
Mi scappa un singhiozzo.

“Senti Anna, io devo far qualcosa. Non mi va proprio di vederti così, specie adesso che le cose al tour mondiale sono andate bene, e innanzitutto ti devi riposare.”
“Lascia stare…”
“Ma cavoli! Ti ricordo che è il padre del nostro Antonio!”
“Nostro?!”
“Beh… sì, in un certo senso. Non sono il padrino scusa?”
“Perdonami Mario, sono stupita e confusa. Peter per come lo conosco io, e purtroppo fin troppo, nell’intimo, è un robot calcolatore. Io non ci credo proprio per niente a questa cosa. Ma nemmeno mi ci voglio interessare.”
“Anna, noi non possiamo, sopratutto te, non puoi far cadere così questa storia. Peter è il padre di Antonio, glielo devi far sapere in qualche modo, ne ha tutti i diritti.”
Sbatte la rivista davanti a me.
“Questo giornale si occupa anche di politica, ed è molto influente a livello planetario. Se a Peter succede qualcosa da cui non si può più tornare indietro, e poi un giorno si viene a sapere che a Venezia proprio in quelle circostanze ha concepito un figlio sempre tenutogli nascosto… Mm, no bene! Capisci che intendo?”

Scuoto la testa, decisa. Peter è entrato nella mia vita di prepotenza ma ha subito voluto uscirne, anzi, diciamo pure che c’è passato di traverso come un carrarmato.

“Mi lasci fare almeno una telefonata?”
Scrollo le spalle.
“Sette ore di fuso con New York, giusto?”

Annuisco, mentre sta con la testa riversa a destra, trattenendo la cornetta del telefono tra la spalla e la guancia come nei vecchi film del Tenente Colombo.
Poi ad un tratto:
“Hello Oliver… how you doing?”

Inizia una conversazione in americano, piuttosto fluent, anche da parte di Mario.
Non riesco a seguirla, così chiudo gli occhi per un attimo… ma ecco di nuovo il maledetto motivetto!

Li riapro, intontita ed irritata. Mario mi osserva, facendo una smorfia tra lo stupito e l’ironico, quasi volesse dirmi ”che hai matta?”.

Scuoto la testa alzandomi di scatto.
In cerca di distrazioni vado alla parete più prossima e osservo un diploma incorniciato con al centro un enorme bottone di ceralacca rossa.
Apparentemente pare un encomio, un ringraziamento, scritto in carattere cirillico, ma non capisco in che lingua…

“Ci siamo Anna!”
Mi volto verso Mario mentre viene verso di me.
Mi abbraccia solo per un istante, ma affettuosamente.
“Sta bene, anche se lo tengono sotto psicofarmaci… cannonate.”
“Con chi hai parlato?”
“Con un amico, un redattore italo-americano, pure compositore, che la sa lunga… ovviamente rimane tutto tra noi.”
“Non gli avrai detto di…”
“Antonio? Ma sei matta?!”
“Quindi che ha Mc Aeron? Davvero è una storia di amori infelici?” [Spiegherebbe anche perché si sia comportato così… da superficiale, concedendosi poi a quella donna diabolica.]

Mario sorride sornione.
“Macché! È tutta un’invenzione del suo agente, anche se cela un fondo di verità.”
“Cioè?” Il mio cuore pulsa forte, di nuovo.
“C’entra sì col suo viaggio a Venezia, ma la causa dei suoi disagi psichici… chiamiamoli così, non è stata una storia d’amore mal gestita, ma è dovuta a una sorta di paranoia mentale nata proprio in quei giorni.”

Il mio cuore, oltre che battere forte, inizia anche ad accelerare mentre un orribile sospetto fa capolino tra i miei pensieri. “Che tipo di paranoia Mario?”
“Beh, sai, è un po’ da matti… ma perché no?”
“MI DICI CHE TIPO DI PARANOIA?!”
Mario alza le mani stupito, “Certo, certo. Calma,” poi sorride:
“Dal ritorno a Venezia, cos’è? tre anni fa ormai? Ha iniziato a sentire un motivetto in testa, composto da tritoni, che poi non è più riuscito a fermare. Sembra folle, ma la notizia è cert-”
“Che tipo di motivetto?”
Mario mi osserva sospettoso:
“Tutto okay Anna?”
“Quale motivetto?”
“Non saprei risponderti, una melodia barocca, ripeto; piena di tritoni, tipo una spirale disce-”

Non ci posso crederee!!

“Anna! Anna! Che t’è preso? Dove scappi?!”

Intontita, ansimante e fuori di me, mi ritrovo in una calle che non riconosco, sotto a una fitta pioggia.
Chino il capo di lato, mentre mi batto il pugno ripetutamente sulla nuca già fradicia.
“Stupida! Stupida! Ma che stupida!” Il motivetto sono serie di tritoni, come ho fatto a non capirlo?! È il diablo in musica. Ma come ho fatto a non arrivarci da sola?!

Inizio a correre verso il lato più buio e nascosto della città magica, senza meta, ma con un unico preciso intento: non mollare fino allo sfinimento!
Voglio crollare a terra senza fiato, senza sensi. Io non lo voglio più sentire!

***

Mi sveglio di soprassalto… fisso il soffitto. No! Non sono nel mio appartamento.
Facendo leva sui gomiti, inarco la schiena leggermente dolorante trascinandovi dietro il capo.
Sconto il prezzo di qualche giramento, ma ora, da seduta, posso vedere dove mi trovo.

Stavo riposando sdraiata sopra a un vecchio divano di lana, forse degli anni ’60, giallo con disegni curvilinei color ocra.
Con un gesto istintivo mi chino di lato e annuso il bracciolo dove avevo appoggiato la testa, forse per fugare un possibile senso di raccapriccio.
Sa di detersivo, anzi, di ammorbidente, proprio come i vestitini dei bimbi del boom economico. Una piacevole sorpresa.
Mi metto seduta mentre lascio che la vista frughi tra le ombre della stanza in cerca di qualche oggetto riconoscibile.
Sulla sinistra, un varco leggermente retroilluminato dà accesso a quello che potrebbe essere il cucinino di un appartamento di una casa popolare.
Sì, è proprio un cucinino; il suono dei coperchi e della casseruola battuta dal mescolo di legno è inconfondibile.

Poi una melodia, cantata sottovoce, lieve.
Faccio per alzarmi, ma non ne ho le forze!
Ritento, ma cado all’indietro sbattendo con la schiena sul divano, come se le mie gambe fossero informicolate.
Do dei pugnetti sulla ginocchia per vedere se sento qualcosa.

“Ah! Ti sei svegliata finalmente?”
Alzo lo sguardo. Non vedo ancora bene, ma di certo non fatico a identificare chi mi sta di fronte dal timbro della sua possente voce.

“Intontita?”
Il cervello risponde: abbastanza, ma ahimè, la bocca impastata come se contenesse del mastice molle, lascia uscire poco più di un mugolio.
L’amica; compagna di quella pazzesca avventura di tre anni fa che quasi c’è costata le nostre vite, e che probabilmente non vedo dalla partenza per la mia lunga tournée, si siede a fianco e mi accarezza il viso, consolandomi.
“Non ti preoccupare Anna. Appena mangiato vedrai che starai meglio.”
Faccio per chiederle spiegazioni, ma di nuovo mi escono solamente mugolii.
Un po’ agitata (e ansiosa) le faccio segno con la mano di darmi qualcosa su cui poter scrivere.

“Ma certo! Che stupida!” Marta si alza avviandosi al cucinino. Ma prima di entrare aziona l’interruttore che fa accendere delle lampade sui due angoli della sala.
La luce è soffusa, ma riesce comunque a darmi un po’ di fastidio.
Socchiudo gli occhi strofinandoli con forza finché ricompare l’immagine di Marta davanti a me.
“Matita e blocco. Vanno bene?”
Annuisco mezza intontita.
Osservo Marta che sta ritta in piedi.
Indossa un grembiule da cuoca, tutto bianco, sopra a degli stivali da cow-boy.
La squadro da testa a piedi; Marta è la classica donna, fortunata, che rimane in forma tonica senza bisogno di fare alcun sforzo.
Poi mi accorgo che sotto al grembiule non veste praticamente niente.
Sorrido, maliziosamente e impacciata porto la mano a coprirmi il viso, ma Marta coglie al volo la mia espressione.
Gesticola, con la mano destra, battendola sul fianco, come fosse una scocciatura: “È per lui! Che ci vuoi fare? Uomini…”
Batte l’indice sulla tempia: “Ormai è costretto a muoversi su una sedia a rotelle tutto il giorno, ma rimane sempre un uomo… mi dice: almeno in casa! Vestiti come piace a me! Ed io… vedi un po’ te. Ora è preso col western se non si fosse capito. Deve aver visto quel vecchio film con la Cardinale e la Brigitte Bardot.”
Mi affretto a scrivere sul blocco: come sta Bo??!!
“Non benissimo, ma perlomeno è stazionario… sai, mi fa pensare a quel grande scienziato che era venuto a Venezia. Non so, forse ormai ha raggiunto il suo picco massimo di devastazione… capace che adesso campi cent’anni.”
Hawking? le scrivo sulla carta.
“Non capisco?! Hai fame Anna?”
Sorrido e scrivo: Quello dei buchi neri… lo scienziato! Quello che muoveva solo la bocca!
Marta ci pensa un po’ su…
“Sì-sì! Proprio lui!” Poi ride. “Fa conto però che a Bo funziona piuttosto bene anche altro,” e si imbarazza un pochino… forse.
Scrivo:
Aveva 3 figli e un sacco di nipoti… normali!…stavano bene!
Marta sembra stupita. “Chi? Quello scienziato mingherlino?!” Poi continua tra sé: “Ecco che si spiega la sua idea fissa…”
Allontano subito da me il pensiero che possa trattarsi di una battutaccia, magari anche sagace; deve aver letto o perlomeno conosce il suo bestseller, poi scrivo:
Dov’è Bo?

Le strattono il braccio per attirare la sua attenzione mentre sembra ancora persa incantata a godersi la sua battuta.
Si siede al mio fianco.
“Sta di là. L’ho sentito muoversi, vedrai che adesso arriva.”
Provo di nuovo a parlare:
“Mmh- mii,” ma non c’è verso, e riprendo la matita.
Mi hai drogato?
Marta fa spallucce.
Poi si alza, va verso a un tavolino e si prende una sigaretta da una scatolina di onice verde dai bordi ottonati consunti.
Si risiede al mio fianco e accende con un Bic arancione, uscito dalla tasca del grembiule bianco.
Poi fissa il soffitto, incantata, mentre lentamente espira quel che rimane del fumo di quella prima boccata dopo essere stato filtrato dai suoi polmoni…
Accidenti, se la sta proprio gustando!
Si gira per parlarmi.
“Devo stare attenta a ‘sta roba qua, amica! Gli anni passano e la voce… due, tre al massimo per giorno… una vera tortura.”
Scrivo: a questo punto soffri meno se smetti del tutto!
Marta si china a leggere, ci mette un pochino forse per la calligrafia un po’ disordinata, poi ride.
Di nuovo un altro tiro, da muratore, come diceva mio nonno quando fumava le senza filtro.
“Tutto è droga!”
La guardo stupita in attesa che continui.
“Tutto è droga Anna, anche il caffè.”
Inizio a spazientirmi: Quindi!!?? le scrivo sottolineandolo più volte.
Ride. “Ah… ho capito! T’ha ricordato quella brutta esperienza… no, non temere, ti ho dato una medicina che uso per Bo quando ha una crisi bella tosta.”
Cosa?!
“Un derivato del fentanil… una bella cannonata!”

Inizio a scrivere freneticamente mentre Marta si alza per gettar via la cenere che nel frattempo ha trattenuto nel palmo della mano.
Si siede ancora vicino a me e inizia a leggere a voce alta:
“Che ci faccio qui? Co-co…ah, come ci sono finita? Perché mi hai draga… dorgat- drogata?”
Marta mi osserva incredula, in silenzio, quasi volesse proteggermi.
In questi pochi attimi cerco di ripensare alla mia vita. Poi d’un tratto ricordo Antonio, il mio piccolino!
Ma come ho fatto a dimenticarmene?!
Oh mamma! Ma non starò mica impazzendo?!

I lunghissimi secondi in cui l’ansia e il panico stanno per impossessarsi della mia ragione, vengono interrotti dalla comparsa di Bo seduto sopra una sedia di legno con delle rotelline in fondo alle gambe.
Lo osservo stralunata, come assistessi alla comparsa di un alieno.
Bo viene verso di noi spingendosi con le braccia facendo leva sugli angoli del muro e sugli stipiti delle porte. Si ferma a un metro da me. Mi guarda affettuoso annuendo:
“Visto Marta? Te lo dicevo che avrebbe funzionato la bomba.”

***

Osservo Marta, confusa.
Bo mi accarezza il ginocchio, adesso fattosi più sensibile.
“Quella roba lì, l’hanno usata i russi per liberare gli ostaggi in quel teatro in Cecenia… hanno steso tutti senza che nemmeno potessero accorgersi di cosa stava succedendo.”

Lo studio in volto… è sempre uguale, anche nelle miti espressioni che lo caratterizzano, e riesce ad articolare le parole quasi normalmente.
“La senti ancora Anna?” Mi chiede con un velo di tristezza ma tanta premura.
Faccio per scrivere sul blocco: Non cap- ma d’un tratto ricordo: il tritono! Il tritono! Non c’è!!
L’ossessionante e micidiale motivetto… è sparito!!
Commossa, con uno slancio mi alzo ad abbracciare i due amici ritrovati.

***

Sposto la tendina ancora assonnata dopo il lungo pisolino. Ormai si fa sera. Piove e fa molto freddo per la stagione, alla faccia del riscaldamento globale.
Dall’unica finestrella dell’appartamentino al piano terra non si vede granché. La vista dà su una stretta e buia calle, anche se in verità, devo dire abbastanza frequentata.
Bo è di là che dorme; se una specie di stato comatoso indotto da farmaci può definirsi sonno.
Sono passate tre ore, e ancora Marta non si vede. Subito dopo pranzo l’ho spedita a casa mia per recuperare il computer portatile e qualcosa da mettere… tra l’altro, non mi ero nemmeno accorta che indossavo alcune sue cose.
Se ve lo state chiedendo… no, il motivetto non s’è ancora presentato, almeno per il momento, ma sono sicura che riapparirà di nuovo nella mia mente.

È una consapevolezza strana, una sicurezza che proviene dall’intimo legata un po’ all’accettazione. Forse, chi soffre di un male cronico come Bo capisce cosa intendo… sul momento si sta bene, ma col pensiero di dover costantemente respingere la fattualità che presto dovrà finire.

Vado nel cucinino, prendo un bicchiere dal mobiletto sopra al lavello ancora di pietra rossa Verona, come si usava nelle case di campagna.
Apro il vecchio frigo, ricoperto di autoadesivi di qualche campeggio sparso in giro per l’Italia, c’è perfino quello di una famosa discoteca riminese degli anni d’oro, la Baia Imperiale.
Niente acqua minerale, solo dei cartoncini di vino bianco e rosso, c’è anche una bottiglia di vodka… “beoni!” brontolo sorridendo.
Apro il rubinetto e riempio il bicchiere coll’acqua del sindaco, dicono che quella di Venezia sia particolarmente buona perché viene intubata sulle Dolomiti e poi portata fin qui, sarà…
Mm… vero! Non male.
Lascio che scivoli giù rinfrescandomi la gola, ma vengo distratta al pensiero di qualcosa che ho visto nel frigo.
Lo riapro, osservo di nuovo le stesse confezioni, posando lo sguardo sui cartoncini di vino… ma che stupida! Me ne rendo conto solo ora: ho borbottato!

Bevo un altro sorso e provo a parlare:
“Vv… Vival… di! Vivaldi!”
Ce l’ho fatta, la voce sta tornando, e ora posso anche ammettere che mi sono spaventata non poco.
DIN-DON. Suonano alla porta.
Riempio di nuovo il bicchiere e ne ingoio metà, magari mi può essere utile nel caso mi servisse parlare.
Mi avvio a passo incerto, ancora un po’ stordita dalla bomba chimica che mi hanno somministrato.
Apro senza tanti indugi: Mario!?
Lo osservo un attimino stralunata; veste elegante, ma si è armato di una di quelle mantelline salva pioggia di nylon, color fucsia. Sorrido per schernirlo un pochino.
“Mi faresti entrare per cortesia?”
Mi sposto mentre spalanco la porticina per farlo entrare. Quasi si deve chinare per passare all’interno.
Mentre la chiudo rimane a fissarmi con le mani appoggiate sui fianchi.
“Boia che tempo gente! Vento, freddo e acqua, se poi arriva anche l’acqua alta siamo a posto!”
Sbuffa, guardandosi attorno. “E qui, per giunta, sareste fregati! Non ho mai capito come facciano quei due a vivere qui dentro. A parte la paratia fuori non mi sembra che abbiano chissà che di misure… mah?”
Infila le mani dentro alla mantellina e piano-piano la fa scivolare sopra alla testa, poi la piega in due appoggiandola in un angolo per terra.
Sparisce, penso sia andato in bagno. Brontola qualcosa poi torna asciugandosi i capelli con un piccolo asciugamano. Lo osservo meravigliata.
“Non preoccuparti Anna, ormai sono di casa qui.”
Si siede sul divano dove ho dormito profondamente.
“Allora? Che hai combinato stavolta?”

Mi avvicino a lui portandomi la mano sulla gola, ma Mario mi anticipa:
“Tranquilla! So che non puoi parlare. Marta mi ha già spiegato tutto. Non sforzarti. Mi ha detto di dirti che ci metterà un po’ visto il tempaccio.”
Butta l’asciugamani bagnato a terra, incrocia le mani dietro alla testa e si lascia inghiottire dal divano.
Sbuffa, quasi fosse infastidito da quanto sta per dire.
“Hai fatto bene a farmi chiamare da Marta, ero molto preoccupato. Capisco che la notizia di Peter ti abbia sconvolto… ma sparire così Anna?”
Si fa serio, “Perché non me ne hai parlato? Avrei potuto aiutarti subito! Marta mi ha raccontato tutto!”
Lo fulmino con gli occhi, poi mi siedo al suo fianco sempre col bicchiere in mano mentre riprende:
“Per questo ci sta mettendo così tanto. Poveretta, era fradicia e anche un po’ in crisi, così s’è riparata in un bacaro, mi ha richiamato e raccontato di cosa t’è successo… Da quanto lo stai sentendo?”
Faccio segno con le mani.
“Cosa?! E che aspett–”
Abbasso lo sguardo al pavimento; mi sento in colpa.
“Cavoli Anna, non dico di essere tuo marito e nemmeno il tuo compagno, ma ti sono sempre stato vicino mi pare! Perché non me l’hai detto subito?”
Batto i pugni sulle gambe, compreso il bicchiere che riversa il suo contenuto per terra e sui pantaloni di Mario.
“Mm… mi… MI VERGOGNAVO!!” Urlo sguaiatamente.
Mario arretra col capo, osservandomi stupito. Poi sorride.
“Bene! La lingua ti sta tornando. Molto bene.”
Si rialza per fare due passi, deve essersi ghiacciato.
“Comunque non serve che parli.”
Si risiede: “Anzi, meglio così!”
Mi sfila il bicchiere dalle mani, lo appoggia sopra al tavolino. Poi me le afferra. Gelide; sì, deve essersi preso una bella ghiacciata.
“Ascoltami Anna! Io mi devo allontanare un pochino dalla città per… per lavoro. Te la senti di rimanere qui un pochino?”
Faccio spallucce.
“Sono un po’ strani, ma a modo loro ti vogliono bene”
Porto la mano alla gola, faccio forza e provo a parlare:
“Vai in America vero?”
Mario mi osserva come non avesse compreso.
“Vai a vedere cosa è successo a Mc Airon, perché si sia ridotto così.”
“Sì, lo confesso. Voglio andarcene in fondo a questa faccenda… e poi ovviamente c’è il lavoro. Ho qualche contatto da rivedere.”
Mi porto le mani a coprirmi il viso, come temessi la risposta di Mario: “Dici, dici che sia stata la medicina di quel professore pazzo?”

“Ma noo,” mi consola Mario. “Scusa, e cosa c’entrerebbe John con tutta quella faccenda? Lui era in giro per il mondo a far concerti, non ti ricordi?”
“Dici?”
“Ma certo Anna.”
Mario mi consola con un lungo abbraccio. Un abbraccio che attraversa da cima a fondo uno di quei momenti in cui nessuno ha voglia di dir qualcosa, anche fosse insensata, giusto per rompere il ghiaccio.
Passano alcuni minuti.

***

Mario ora è sulla porta, sta chiudendo alla meglio la mantellina di nylon. Cerca di stringerla alla vita con la cintura in dotazione, un blando nastrino.
Un folata d’aria mista a pioggia la gonfia dietro come un pallone, così lui stringe, spezzandola.
Rimane imbambolato ad osservare i due pezzi rimastegli nelle mani come un bambino che ha rotto il suo giocattolo preferito.
“Al diavolo!”
Io rido un pochino.
Mi dà un bacio sulla bocca.
“Scappo Anna. Marta sarà qui tra mezz’ora, va bene?”
Annuisco mentre chiudo la porta.
Appoggio la fronte sul portoncino e chiudo gli occhi.
Poi un urlo agghiacciante che mi mette i brividi… proviene da dentro.
Bo!? Deve essergli successo qualcosa.
Lentamente mi avvicino al corridoio appena illuminato da una luce rossa soffusa. Proviene da due applique di velluto scarlatto. Mi guardo attorno, ma non vedo altre luci.
Una cameretta è vuota, mentre l’altra è chiusa da una porta color avorio col vetro centrale sagomato. Dev’essere quella di Bo.
Dietro alla trasparenza si scorgono dei movimenti distorti dai disegni a rombi del vetro.
Oh santo cielo! Che faccio ora? Non conosco così bene Bo! E se avesse una crisi mentale dovuta all’astinenza? Se fosse impazzito?!
“Ma dai Anna, suvvia… è Bo!” Incoraggio me stessa a voce alta.
Faccio per mettere mano sulla maniglia quando intravedo del movimento sempre più vicino. D’istinto l’afferro e la tengo chiusa, ben stretta, e difatti dall’altra parte Bo inizia a forzarla con prepotenza.
“Devo uscire!!” Sembra fuori di sé. “Fammi uscire brutta stupida!”
Afferro la maniglia anche con l’altra mano e tiro con tutte le forze nella mia direzione.
Bo continua ad insultarmi, “Voglio uscire brutta…” E partono una serie di parolacce orribili che accrescono sempre più il mio terrore.
Uno strattone alla maniglia, che quasi mi spezza i polsi, mi fa mollare la presa e cadere a terra.
La porta si spalanca mentre appare Bo.
Porta solo degli slip bianchi e dev’essere in piena erezione.
Il suo sguardo è allucinato, alieno.
Caccio un urlo con tutto il fiato che ho in corpo mentre spingendomi con le gambe, faccio leva sul muro con la schiena. Mi rimetto in piedi all’istante.
Arretro confusa finché l’osservo in volto in cerca di qualche segnale di razionalità. Ma non c’è verso, così scappo fuori dal corridoio.
Cerco di aprire la porta d’ingresso mentre lo sento urlare cose incomprensibili, orribili, quasi fossero sataniche.
Bo in questo momento non è l’affettuoso e invalido Bo, è una bestia capace di far chissà cosa!
Forzo la serratura, quasi spezzando la chiave. Apro per correre in cerca di aiuto, forse Mario si deve ancora allontanare…
“O mamma!” Sta diluviando come non ho visto mai!
I piccoli tombini faticano a inghiottire la quantità indicibile di acqua che si sta riversando nella calle. Decine di ombrelle rotte, trascinate dai gorghi si stanno accumulando formando delle dighe che vanno a fermare sacchi e secchi della spazzatura. In alcuni punti l’acqua sta già lambendo dei portoncini d’ingresso.
“Ma… ma! Ma se esco ora, io, io qui affogo!?”
Chiudo. Mi giro sconsolata verso l’interno, e caccio un altro urlo.
Bo, davanti a me, tutto un tremore, mi sta osservando. È riuscito a infilarsi una vestaglietta rosa, che sta ancora aperta e col cinturino slacciato.
Riesce a reggersi in piedi tenendosi sollevato con le braccia tra un mobile e la sua sedia con le rotelline, tenuta ferma trattenendo una di queste con l’alluce ormai viola per lo sforzo.
Trema, come una foglia, mentre le gocce di sudore scendono dai capelli fradici.
Il viso bagnato è ancora allucinato, anche se adesso sembra che un piccolo lume, una flebile speranza di vita, si sia riaccesa nei suoi occhi.
D’istinto abbasso lo sguardo sul suo corpo martoriato da anni di sofferenza, spaventata che possa seriamente farmi qualcosa di brutto.

 

Approfondimento I

Fentanil e tritono

Anna sembra stare meglio, la “bomba” farmaceutica di Bo pare aver funzionato. La nostra organista quasi non si accorgeva nemmeno che il motivetto era sparito, tanto era disorientata al risveglio dal suo sonno profondo.

Giusto per capire, ricordo che la “bomba” è a base di fentanil, un oppioide cento volte più potente della morfina. Viene usato in anestesia (sala operatoria) e per patologie del dolore molto gravi e purtroppo è diffuso anche come potentissima droga.

Ma torniamo al tritono, che è alla base del motivetto che stava per fare impazzire la nostra Anna.

Il tritono, in musica, semplicemente, è un intervallo di tre toni, o sei semitoni.
In pratica se prendete la tastiera di un piano e premete i DO e il FA# ottenete una frequenza di tritono: se li contate, ci sono tra le due note sei semitoni, ossia sei tasti di lontananza bianchi e neri, tutto qui. Ovviamente lo potete ripetere su tutta la tastiera.

In qualche modo (ben definito), il tritono associato in coppie, crea degli effetti sonori particolari, simili a delle illusioni; delle progressioni infinite.

Senza scendere in particolari troppo complessi, basta sapere che serie di tritoni ripetuti, possono dare luogo a melodie che sembrano salire o scendere all’infinito, ne è un tipico esempio la Scala di Shepard che potete facilmente trovare e ascoltare sul web.

Ho chiesto aiuto al mio maestro su come buttar giù all’organo un motivetto che possa farci capire che tipo di problema ha Anna, ovvero qual è il tarlo melodico che le divora il cervello; era un po’ perplesso… ci vorrà un pochino.

Sappiate però che anche l’immenso Bach si servì di questi accordi/disaccordi particolari in alcune sue composizioni molto complesse.

Il tritono è anche associato all’espressione “Diabolus in Musica”, proprio nel senso di Lucifero.

 

***

“Bo? Bo! Che hai?!”
Inizia a scuotere la testa.
“Hai una crisi?”
Niente! Non c’è verso. Non si muove e rimane lì a fissarmi ancora tremolante.
Arretro di due passi; so che nel suo stato difficilmente riuscirebbe a farmi del male, ma il fatto che sembra non riconoscermi mi spaventa.
Poi un qualcosa, che percepisco o sento, mi mette paura, l’aria intorno a noi inizia a vibrare, per tutta la stanza. Mi rigiro spaventata: sta succedendo qualcosa.
I bicchieri di cristallo stipati in qualche mobiletto iniziano a vibrare, poi tocca ai coperchi dei pentolini appoggiati sopra al fornello di là nel cucinino.
Guardo Bo, confusa e in cerca di risposte.
Finalmente la sua espressione cambia, divenendo più umana e affettuosa. I suoi occhi ora sono lucidi, e questo mi fa capire che prima forse era semplicemente terrorizzato.
“Su… succede di nuovo Anna!”
“Cosa? Che cosa Bo?”
“L’acqua, l’acqua arriva… affogherò!”
Alzo lo sguardo al solaio, piuttosto basso come nelle vecchie case di campagna, fatto di tavole di legno sostenute da travi rotonde. Sembra tutto a posto, non capisco?!
“Bo, ti aiuto a rimetterti-”
“No! Voglio stare in piedi!”
“Almeno mettiti sul divano.”
“No. Voglio stare qui. Io aspetto Marta.”
“Sì, ma non ved-”
Qualcosa mi colpisce da dietro, alle gambe, facendomi cadere a terra, non prima d’aver trascinato assieme a me anche il povero Bo.
Una specie di gorgo torbido, ci spinge per qualche metro nella stanza, ci avvolge facendoci girare attorno come barchette di carta.
In preda al panico mi aggrappo al divano, mentre cerco di afferrare Bo per il bavero della vestaglia.
Disperato, cerca di tenere la testa fuori dall’acqua sollevandosi da terra sui gomiti.
Completamente in panico non riesco a capire cosa sta succedendo. Poi vedo che la porta è aperta, spalancata.
Appare una figura, anche questa tutta cellofanata di fucsia, come fosse un arrosto da mettere in frigo.
Si gira a guardarmi: è Marta.
“Dai bella! Forza e coraggio!” Il suo tono così schietto e sicuro mi tranquillizza all’istante.
Nel frattempo Bo si è trascinato sopra al divano. L’acqua, ora più calma, in qualche modo, deve averlo agevolato nei movimenti.

***

Cammino col liquido che mi arriva alle ginocchia fino alla porta.
Marta esce e io metto fuori la testa, per vedere che combina.
Incredula, quasi imbambolata, fisso la calle completamente allagata, l’immagine trasmette pura devastazione.
Sembra che sia straripato un torrente, come succede in terraferma, solo che qui i rami e i tronchi degli alberi divelti sono sostituiti da centinaia di ombrelle a pezzi, dai loro scheletri, e tanta, tanta immondizia.
Marta si allunga a prendere un borsone militare, appeso sul muro esterno grazie a un chiodo.
Lo tiene in alto fuori dall’acqua per poi sbattermelo in faccia.
Paro il colpo con destrezza, mentre lo afferro saldamente con tutte e due le mani, anzi, il riflesso incondizionato sorprendentemente rapido, mi fa anche destare, riportandomi alla realtà.

“C’è dentro la tua roba Anna!”
Annuisco.
“Paura… eh!?”
“Un pochina…”
“Visto cosa può succedere nei bassi fondi?”
“Ma che sta succedendo? è un maremoto?”
Ma Marta non dà bado alla mia domanda e si dirige dentro verso il suo Bo. Rimango sulla porta ad osservare i due.
Lei lo accarezza sulla fronte, senza parlagli, poi lui annuisce con gli occhi bassi come a dire ”sto bene, non preoccuparti”.
Entro anch’io e cerco un punto alto dove appoggiare lo zaino, ma non trovo nulla di affidabile.
Arriva Marta, lo prende e se lo porta in corridoio. Lo aggancia a una delle applique rosse viste prima.
Forse il gesto le ha fatto venire in mente qualcosa di importante.
Corre schizzando acqua ovunque verso il portone d’ingresso. Sposta l’anta della porta ancora aperta e apre un coperchio inserito nel muro.
Fa azionare un interruttore. Si spegne la luce e d’improvviso cessa il rumore sonnecchiante del vecchio frigo, di cui solo ora ci accorgiamo.
Poi si gira, collerica, verso Bo:
“Cos’è?! Volete morire fulminati?!”
Non l’ho mai vista così adirata.
“Io… io non ci ho pens-”
“Non parlo con te Anna! Parlo con Bo… porca di quella vacca!”
Va verso un mobiletto, apre il cassetto con uno strattone e si accende una sigaretta.
“Cavolo! Te l’ho detto che se arriva alla prese della corrente bisogna spegnere tutto, porca di quella vacca!”
Bo l’osserva a testa bassa come un cagnolino sgridato dalla padrona. Mossa da pietà intervengo in sua difesa.
“Ma, ma non c’è un salvavita che scatta?”
Marta ride, forte, già di un altro umore:
“Vuoi che proviamo? Aspetta che ridò corrente.”
Marta espira la boccata di fumo e si avvia con nonchalance verso l’interruttore… lo sta veramente per riattivare!
“NO!!” Urla Bo.
Si gira a guardaci, con la sigaretta storta tra le labbra annuisce, mimando l’espressione di una sadica.
Gira il palmo in alto e poi unisce le dita in quel classico gesto: “Paura eh?!”
Poi ride, sempre trattenendo la sigaretta tra le labbra. “Così, la prossima volta vi ricordate di… STACCARE TUTTOO!!”
Tiriamo un sospiro di sollievo; vai capire certe volte che gli passa per la testa a ’sta matta.

***

L’amica si avvicina.
“Adesso ci facciamo un bicchierino di roba forte, che poi c’è da fare.”
“Sono pronta. Comandi!”
“Dobbiamo mettere la paratia di acciaio fuori dalla porta, sperando che il livello dell’acqua sia sotto al bordo. Anzi, meglio farlo subito.”
“E il bicchierino di… di roba forte? scusa?” Chiedo imperiosa.
“Ah… hai capito la perfettina!”

Butto giù d’un fiato quel che rimane della grappa all’Erba Luigia, con gli occhi ancora lucidi dopo il primo sorso.
Nel frattempo, Marta ha fatto indossare a Bo qualcosa di asciutto.
Da dietro a un mobiletto che quasi galleggia, prende la paratia di acciaio.
Le do una mano a fissarla nella scanalatura all’ingresso, dopo averla pulita per bene con degli spazzolini da denti. Stringiamo forte i bulloni provvisti di manopola. Osserviamo affaticate il risultato.
Anche se il livello dell’acqua torbida ora è sotto al bordo, non succede nulla.
“E adesso Marta?”
“In che senso?”
“Non succede nulla, non va giù!”
Marta sorride.
“Certo che tu di acqua alta… ma ti capisco anche. E quando vuoi che ci arrivi lassù, sopra al tuo bel attico sul Canal Grande?”
Contraccambio la sua frecciatina con un’espressione offesa.
“Ma dai bella! Mica te la prendi vero? Non è un’offesa essere ricca, specie se il pane te lo sei guadagnato.”
Mi guardo attorno, perplessa. “Che disastro Marta!”
“Eh già. Ed è andata bene che ha smesso di piovere. Non ti dico cosa ho passato per venir qui. Quasi mi toccava farla a nuoto.”
“Potevi ripararti da qualche,” ma mi fermo in tempo; ovvio che era in pensieri per Bo.
“Tutto okay invece voi due?”
“Beh, a parte il gorgo che ci ha sbattuti per la stanza facendoci girare come barchette di carta… sì, diciamo di sì.”
“Sicura? In che senso diciamo?”
Certo che le allusioni, anche se sottili, Marta le capisce al volo!
Ma non mi va di parlarle di quella strana e ambigua situazione vissuta prima con Bo.
Forse è stata solo colpa mia; dovevo capire al volo che in qualche modo aveva percepito cosa stava per succedere e ne era terrorizzato. Aveva paura di fare la fine del topo delle stive sulle navi che affondano… forse non sapeva se dirmelo o meno. Cambio argomento.
“E adesso Marta? se non succede nulla che si fa?”
“Se abbiamo fatto un buon lavoro con la paratia, l’acqua non si dovrebbe più alzare. Diamo un’occhiata alla presa più bassa, e se è a posto rischiamo: attacchiamo corrente e accendiamo la pompa.”
Mi guardo attorno demoralizzata; il livello non sembra calare.
“E se ci vuole troppo, mi faccio prestare una pompa col motore a scoppio, quella fa miracoli.”
“Hai il mio telefono per favore?”
“Certo.”
Entriamo dentro, ma prima ridò un’occhiata alla calle.
“Come mai non si vede nessuno Marta?”
“Qui son quasi tutti foresti. Non ci vivono.”
“Anche qui?”
“Sopratutto qui. Vedi? C’è la Venezia vera, quella oscura, quella gotica. Quella dei film di Fellini e di Sche… Shi… non mi viene il nome.”
“Shrader”.
“Ah. Lo conosci?”
“Più o meno, me ne aveva parlato Mario,” le afferro il braccio con forza, “E sai quando? Proprio la sera che ci siamo incontrate a quella festa vip. Che serata strana, non trovi?”
Marta va verso il tavolo e riempie i due bicchierini di grappa.
Brindiamo mentre osserviamo Bo che dorme steso sul divano… che folle avventura su quell’isola. Sospiro: davvero ne eravamo uscite vive per un soffio.
Si gira verso Bo:
“Il mio tesoro… dopo lo devo ricambiare, altrimenti si prende un accidente!”
Ci avviamo verso la porta. Osserviamo deluse il livello dell’acqua che rimane uguale da tutti i due lati della paratia. Poi ho un’idea.
“Mi scoccia richiedertelo, ma mi puoi dare il telefono per favore?”
Marta rientra in casa e sparisce nel corridoio.
Torna con lo smartphone. Me lo passa con cautela,
“Mi raccomando! Non fartelo cadere. Il mio è già andato e quello di Bo chissà dov’è finito!”
“E la linea fissa? non funziona?”
Marta ride, “Roba di ricchi ormai Anna.”
Guardiamo verso l’interno, al locale.
I mobili sono quasi tutti da buttare e anche il divano su cui ho riposato miracolosamente, non se la passa tanto bene.
“Che disastro Marta! Mi dispiace tanto, davvero.”
L’amica scola il bicchierino, e io la imito.
Tossisco.
“Brucia?”
“Un po’ fortina per un’astemia.”
Porto il telefono all’orecchio.
“Chi chiami Anna? Chi trovi a quest’ora?”
Strizzo l’occhio: “La cavalleria.”

***

La cavalleria è arrivata in gran pompa ed ha acceso la pesca che da dentro l’appartamento butta nella calle, ormai trasformata in un rio.
La pompa ha un potente motore a scoppio quindi non serve dare corrente all’abitazione.
La cavalleria è composta da una squadra di tre uomini con addosso gli stivali da pescatore, arrivati con un carrettino. Sopra; tutto l’occorrente per risolvere il nostro problema, compreso un potente deumidificatore.
Con sottofondo il rumore della pompa a scoppio io e Marta finalmente ci rilassiamo sedute nel salottino.
“Cavoli Anna! Mi devi dare il numero di ’sta gente qua!”
Faccio spallucce, “Ho solo fatto uno squillo a Mario, il mio agente.”
Lei mi sorride sorniona:
“Beh, non so se ti ricordi? ma è anche il mio agente, e di Bo… certo che se lo chiamo io, per una cosa così…”
Poi, imbarazzata. “Una persona normale, forse anche un’amica vera, non so… magari ti chiederebbe come state messi voi due, insomma: se state assieme?”
Mi volto di scatto verso l’ingresso, “Ma guarda che bel dislivello!” E con l’indice indico la paratia d’acciaio sulla porta.
Marta scoppia a ridere. “Buono il mio tè?”
“Molto, ci voleva, e grazie per il prestito,” con delicatezza tasto con le dita il tessuto della maglietta datami da Marta.
“Comunque ho preso anche qualcosa di tuo se vuoi metterlo, sta tutto nella sacca col computer.”
Annuisco.
Marta si alza con la tazza, va nel corridoio, probabilmente per controllare se Bo è a posto. Poi si sposta verso la paratia, mette fuori la testa in calle e rientra.
Ha più l’aria di una cospiratrice, una persona che sta per dire qualcosa di importante e segreto, che quella interessata a ciò che accade in calle.
Poi va al tavolo, prende la grappa e quasi riempie la tazza fino all’orlo.
Ne inghiotte parecchia, deglutendo in modo piuttosto evidente. Poi mi guarda e ne beve ancora. Con una bevuta del genere io rasenterei il coma etilico!
Ma intuisco che ha qualcosa dentro da tirar fuori, un rospo, un magone.
“Che c’è Marta?”
Si siede sul divano umidiccio, al mio fianco, con gli occhi lucidi, sembra stia per piangere mentre accarezza la parte in basso fradicia.
“Non preoccuparti per i mobili, ti voglio dare una mano.”
“No, figurati. Il deumidificatore fa miracoli; sai che il mio piccolino toglie sette litri di acqua dall’aria? Solo qui dentro intendo.”
“Sì, più o meno, mia zia ne ha uno in terraferma, quello ne fa una decina al giorno. Ma allora, perché piangi?”
Marta sorride:
“Non sto piangendo, è stata la grappa, cavolo se brucia! Ora mi passa.”
“Marta! Fuori il rospo!”
Inspira, molto profondamente. Quasi urla espirando tutto in un fiato: “Penso che Mario non ce la racconti tutta giusta!” Si alza in piedi, seccata, teatralmente.
La osservo in silenzio per alcuni secondi.
“In… in che senso?”
“Ma dai Anna?!”
Scuoto la testa; non capisco.
“Organista! Il tuo disturbo allucinante, quel motivetto che senti, come quello di John, il divo organista con cui hai avuto la tua storia. Ora sta messo male, vero? Ha tentato di suicidarsi. Un tuo professore morto, non si capisce bene come, dopo che vi siete visti alla Bragora. La morte di Tuan… continuo?”
La guardo ancora più perplessa.
“Io… io non ti capisco Marta?”
“Mario! Mario! Mario Anna! Lui c’è! Lui c’è sempre… poi scompare… e poi riappare.”
“Beh, siamo… siamo…”
Mi alzo di scatto, profondamente offesa.
Faccio per uscire, ma Marta mi trattiene per il braccio…

***

Beh, ora devo proprio andare, sono al gate e mi stanno perquisendo da capo a piedi, ma non vi lascio così in sospeso.

Marta, oltre che riuscire a scusarsi, mi ha quasi convinto a considerare che le sue supposizioni, o forse insinuazioni, hanno un oggettivo, seppur minimo, riscontro.
Seria, con un’aria quasi profetica, mi ha detto:
“Parti dall’inizio, dal funerale del Barone. Lì ci dev’essere un filo conduttore, anche se non lo vedi. Trovalo e seguilo. Vedrai che in fondo, al bandolo, troverai Mario.”

Ed ora, sapete dove sono?
Sono all’aeroporto Marco Polo.
Sto salendo sul jet che mi porterà da John Mc Airon, in America.
Il mio amante di una sola notte, vivo per miracolo, padre inconsapevole di Antonio… forse ancora per poco.

***

M’addormento appena passate le Alpi, subito dopo aver constatato quanto sia piccola vista dal cielo la nostra grande Venezia.
Il vociare è forte e intenso, ma non sono così famosa da dover viaggiare in prima classe o in business, per cui mi accontento così.
Ora che mi viene in mente, vi dico dell’ultimo pensiero che m’è passato per la testa prima di chiudere gli occhi.
All’ennesimo strillo del bimbo vicino, circa tre file davanti alla mia, mi dico:
scema! Potevi andare in business, o no?
E che cambia? Così stai in mezzo alla gente… e poi tanto, se le cose si mettono male… beh, qui non si fanno distinzioni di classe.
E dopo… dopo ho pensato alla nostra Venezia durante le peste, ma in modo confuso. Forse è stata l’influenza di un libro appena letto, dove Tintoretto chiedeva a Dio di salvare la sua adorata Marietta in cambio della sua rinuncia all’arte profana… mica poca roba gente!
Duecentomila, o forse più persone, tutte su quell’isola fatta a pesce, un mosaico infinitesimo, visto prima dal finestrino piccolo-piccolo.
Muore il nobile, il marinaio, il pittore del secolo, il musicista, il generale da mar. Muore il doge.
Questo pensiero leggero, confuso, quasi fosse una di quelle nuvolette sperdute che vanno a fondersi nel manto bianco sopra di loro, beh, mi ha dato un certo conforto (e un po’ me ne vergogno), facendomi assopire beata.

***

Il viaggio è stato lunghissimo; purtroppo le correnti a getto erano a noi sfavorevoli.
Diciamolo: non vedevo l’ora di arrivare, per poi prendere l’altro aereo e finalmente andare da Peter.
La curiosità, l’impazienza e una certa ansia rallentavano le lancette dell’orologio.

***

Un pollice dall’unghia sporca di terra, sgrana le perle del rosario bianco.
Qualcuno dietro di me bisbiglia preghiere, una specie di cantilena in spagnolo.
Alzo lo sguardo. In fondo alla cappella, grande quanto una nostra chiesetta, c’è una Madonna con il suo Bambino, circondata da angeli e putti.
Il dipinto sembra antico, anzi; arcaico… non so come spiegarlo. Forse è ancora più antico di certi quadri che ho visto a Venezia e un po’ ci assomiglia.
L’altare che gli fa da cornice infatti è in stile gotico, quasi veneziano, ricorda anche questo alcuni portali del ‘400 sparsi per la Serenissima.
“Ah!” Quasi caccio un urlo quando vedo sporgere un volto dalla finestrella sopra alla pala gotica.
Mi alzo preoccupata, guardandomi attorno.
Due signore anziane pregano immobili e anche il francescano al mio fianco non alza lo sguardo continuando a bisbigliare mentre sgrana le perle in modo compulsivo quasi fosse un tic.
Da una porticina laterale appare l’unica persona di cui avevo certezza che non avrei mai, e poi mai, più rivisto: John Smith.
Questo era il nome che ci eravamo inventati per mimetizzarsi tra i turisti di Venezia.
John mi viene incontro e mi abbraccia.
Il divo americano è sempre bello da morire, ma è meno solare di quando l’ho visto l’ultima volta.
Sembra quasi stanco, come fosse un po’ stufo… di tutto.
So che mastica qualcosina di italiano, ma lo metto subito a suo agio con il mio americano maccheronico.
“Ciao John, Visto? Alla fine ci siamo incontrati un’altra volta.”
Mi prende la mano dolcemente, “Carissima Anna. Vieni, sediamoci là in fondo.”
Ci accomodiamo nell’ultima fila, vicino alla porta d’ingresso.
“Hai visto che strana chiesa che hanno in questo ospedale?”
“Sì, non me l’aspettavo. Una bella sorpresa.”
John sorride: “Sapevo che l’avresti gradita.”
“Volevi farmi sentire a casa, vero?”
“Sì, un pochino. Vuoi che ti racconti la sua storia?”
Annuisco, non troppo convinta, preferirei parlare subito di John, ma diamo un po’ di tempo al tempo.

***

“L’ha fatta costruire un americano molto ricco. Era in vacanza in Italia, se vacanza si può definire muoversi per collezionare opere d’arte di valore.
Anna? Conosci la storia di Mozart e Salieri, quella di quel film famosissimo?”
Lo guardo, sorridendogli, poi scuoto la testa:
“Ma prima dimmi dove vuoi arrivare, John?”
Poi realizzo la banalità: è un attore di cinema.
“Scusami, dimmi pure, sì, sono curiosa. Raccontami.”
“Dicono che Mozart sia stato ucciso dal compositore italiano Salieri, perché era invidioso.”
Lo interrompo con una punta d’orgoglio, forse condita da un pizzico di campanilismo.
“È una bugia John! Salieri probabilmente era più famoso di Mozart così come le sue opere, non aveva proprio niente da invidiargli. Che poteva importagli a lui di Amadeus?”
“Ehi! Calma Anna. Non ti volevo pungolare?”
“Capisco che un attore magari dà per scontato quanto ha visto in un film stra-premiato, ma se parliamo della stessa cosa, i tuoi amici colleghi erano completamente fuori strada.”
“Anna, il film era basato su studi e fatti accertati.”
“Certo! Immagino!” Gli replico ironica.
“Scusami Anna, ti sto offendendo, perdonami.”
Mi prende una mano, “Fatto sta che il benefattore era nel paese nativo di Salieri e cercava notizie su di lui… e forse qualche oggetto da collezionare. La madre, a cui era molto legato, ebbe un infarto e fu operata d’urgenza in questo ospedale. Purtroppo le cose andarono male.”
“Capisco…”
“Pur non essendo molto credente, il figlio entrò in una chiesetta, del tutto simile a questa, e pregò ripetendo in continuazione quel poco che ricordava… Ora attenta Anna!” Me lo dice serio: “Non chiese al Signore di far vivere sua madre, ma almeno di poterla salutare per un’ultima volta.”
“Uau!”
“E sai come finì?”
“Beh, se c’è la chiesetta…”
“Diciotto ore dopo poté abbracciare sua madre facendole il regalo più grande: dirle che lui ora credeva. Subito dopo lei spirò col sorriso.”
“Caspita John, è una storia bellissima, e potrebbe anche avere un fondo di verità.”
“Anna?! Ma certo che è vera!”
“Venti ore di volo dal Veneto ad Atlanta?”
“Diciotto Anna.” Poi sorride e con la mano mima il volo di un aereo in decollo:
“Concorde, concorde Anna. Sai che cos’erano?”
Annuisco.
“Attraversavano l’oceano i tre ore Anna.” Poi sospira, pensieroso, ripetendo tra sé: “Tre ore Anna, tre ore.”
“Va bene, mi arrendo, anche se sembra un po’ il copione di un tuo film.”
John ridacchia, poi si rifà serio.
“Così fece costruire questa cappella che vedi, esattamente identica a quella dove pregò quel giorno. Pietre e marmi dall’Italia, quadri veri del quattrocento italiano.”
“Morale John?”
“La morale? Certo, forse che non si può chiedere più di quello che sentiamo di meritare, intendo nel profondo. E se riusciamo a fare questo davanti a Dio…”
“Forse veniamo esauditi.” [Accidenti: divo, strafigo… e pure profondo!]
Sospiro, guardandomi attorno, beata. Evito di proposito i suoi occhi blu rifulgenti.
Chissà quante delle mie amiche d’elite rinuncerebbero a una parure di diamanti pur di stare qua, sedute al mio posto.

***

John si alza e inizia a passeggiare.
Le suole di gomma delle college stridono sul pavimento di mattonelle. I marmi hanno una forma esagonale e creano un motivo geometrico alternandosi in marmo bianco e marmo rosso, probabilmente pietra di Verona. Infine, dei rombi neri chiudono gli spazi tra gli esagoni.
Rialzo lo sguardo proprio nel momento in cui John mi fa l’occhiolino: “Vedrai che ce la farà, Anna.”
Sospiro mentre gli occhi mi si fanno lucidi.
“Non sei riuscita a dirgli nulla?”
“No John. Era intontito, continuava a blaterare cose incomprensibili; figurati, col mio inglese. Poi si tappava le orecchie con i palmi.”
“Gli hanno bendato le dita, altrimenti se le cacciava dentro per sfondarsi i timpani…”
John prende una di quelle sedie di legno pieghevoli, che fanno anche da inginocchiatoi, la apre e si siede di fronte a me.
Si piega in avanti, fissando il pavimento. Sta lì, con le mani incrociate e i gomiti puntati sulle ginocchia.
Passa qualche minuto.
Poi, sottovoce, in italiano, quasi timidamente, come temesse di essere sentito da un qualcosa di imperscrutabile ma presente.
“Sai Anna? John McAiron, tempo fa, non era così bravo.”
Lo guardo sconcerta: “Che intendi dire scusa?”
“Non lo so nemmeno io Anna… Io, John, lo conosco molto bene, assieme a lui ne ho combinate parecchie.”
“Donne?”
John sorride, un po’ amaro.
“Sì, abbastanza… Io il divo, lui beh, lui il genio. Di nicchia per carità, ma aveva comunque il suo nutrito gruppo di fan e piuttosto tenaci, quasi delle grupies.”
“È un bel figo anche il mio John… cool.”
L’attore mi osserva con dei luminosi occhi blu. E, nonostante il momento cupo, nonostante la mia condizione di professionista nonché donna matura, ammetto – e consento – che un brivido attraversi il mio ventre.
“Antonio è suo figlio, vero?”
Strabuzzo gli occhi, sbattuta fuori da quel dolce lago blu che sono i suoi occhi. Farfuglio:
“Ma? M-ma…” Ma è inutile mentirgli.
“Sì. Me l’ha lasciato in quell’ultima notte a Venezia. Poi deve aver perso la testa. Completamente.”
“Ti capisco sai, intendo il fatto che non hai voluto dirglielo…”
“Ma come ci sei arrivato John?”
“Facile Anna. Non ti sei mai sposata e nemmeno fidanzata. Un pochino di te si parla, anche qui in America, specie dopo quel concerto mondiale… e quella strana faccenda dell’esperimento di medicina. Le voci girano, levi il trash e poi basta fare due più due.”
“Sono venuta qui per dirglielo… ma che ti racconto. Soprattutto per capire che cosa ci sta succedendo.”
John ora sembra assorto, non si è nemmeno accorto che ho usato il plurale, che qualcosa di simile sta accadendo anche a me. Si sarebbe subito allarmato.
“Anna, io… io prima ti stavo per dire qualcosa di un po’ strano… voglio dire, davvero, prendilo con le pinze.”
Sbuffa, poi si alza di scatto. La sedia si chiude sbattendo a terra. Il botto si propaga imponente per tutta la chiesetta.
Entra un signore di mezza età, con pantaloni e camicia di jeans, potrebbe fare coppia con Marta. Alza gli enormi occhiali a specchio arancioni e scruta l’interno, poi osserva John.
“Tutto okay Dylan.”
Esce fuori. Era un suo body-guard.
John si avvicina fulmineo, mentre io mi alzo spaventata, sembra quasi mi voglia baciare. Ma lui mi afferra per le spalle.
“Anna! Anna! John non ha mai perso la testa in vita sua! Quella… quella donna non era normale, lo capisci?”
“Quale donna? La… la rossa?” Mi sento impacciata persino nel pronunciare il suo nome.
“Sì-sì. Ho visto come l’ha plagiato, e come suonava con lei appresso. C’è sotto una mano oscura, una FORZA oscura!”
John si stacca da me, quasi spingendomi contro la parete, come avesse preso la scossa.
Cammina avanti e indietro, poi si afferra il labbro inferiore tra pollice e indice, strattonandolo, e torna.
“Anna! È stata lei! Gli ha messo nel cervello le sue note, il motivetto che hanno composto assieme e l’ha fatto impazzire!”
“Chi? Gabriella?!”
Mi siedo, sconvolta, mentre rammento quanto dettoci dal commissario su di lei, quella notte di tre anni fa:
”Il suo profilo ce la indica come una donna d’astuzia non comune, anzi… direi diabolica.”

“Noo! Perché?!” Chiedo al cielo disperata.
“Anna! Che hai?!”
Mi accascio a terra, stringendomi la testa con i palmi premo le orecchie.
“Anna? Anna? Che succede?!”
Alzo lo sguardo. In lacrime osservo John attorniato dai pochi fedeli presenti. Il lungo rosario che pendola toccando a terra. Lo vedo mentre pronuncia parole a raffica, ma io non sento nulla. Niente di niente. Poi un flebile fischio, come un acufene, via via sempre più forte. Poi una pausa e riparte. Poi il ritmo. Chiudo gli occhi e metto le mani sul viso, preda allo sconforto. Il tritono: il diavolo è tornato!!

***

 

Il nulla, il niente, sprofondo nell’ovatta. Sa di quella lozione alle rose della zia… o forse che usava mamma!
“Mamma!!”
Devo aver urlato: mi sono svegliata da sola.
Al riemergere dalla profondità del sonno, un rumore quasi assordante si palesa sempre più forte. Ma non è il motivetto a tritoni.
Metto le mani sulle orecchie. Ma che succede?
I miei occhi sondano tra il buio.
Sto su un letto. Lenzuola pulite, pare inamidate. Forse sto in un ospedale, o in una struttura sanitaria.
La poca luce che si diffonde nella stanza proviene da una finestra aperta ma con la tapparella completamente abbassata. Dai buchini di questa partono dei fascetti di luce che vanno a colpire la parete sulla mia destra. Formano un’immagine molto vaga. Sembra una spiaggia, un mare, ma alla rovescia.
Cerco spiegazione al forte rumore. Eccola!
Davanti alla finestra, appoggiato sul davanzale, sta messo un enorme ventilatore industriale, di quelli usati per fare il cinema.
Non ha senso: dietro non ha presa d’aria, essendoci la tapparella abbassata e punta verso un angolo cieco della stanza. Che ci starà a fare?
Non capisco, ma decido di fidarmi. La morbida ovatta dal profumo di rose mi sta richiamando a sé. Non voglio star male di nuovo.
Chiudo gli occhi. Sospiro. Il forte rumore non sembra così fastidioso, anzi, emette delle basse frequenze piacevoli, positive, rilassanti. E poi… poi, poi lo tiene lontano… non so come, ma è lontano, impotente, non mi fa più impazzire.
“Mi fido… mi fido…” riesco a mormorare mentre sprofondo nel sonno da dove era emersa.

***

Oggi sono uscita dal mio sonno per due tre volte.
Mi sento sempre un po’ confusa. Il mio riemergere dal profondo mi ricorda un poco un ramo che sta in mare da giorni che appesantito attraversa le onde. Sta sotto al pelo dell’acqua ma ogni tanto riemerge, così, come la mia coscienza.
Se qualcuno avesse voluto farmi del male penso che sarebbe già successo. Indosso un pigiama rosa, ricordo vagamente delle mani premurose che mi aiutavano a vestirlo.
Sento dei passeri cinguettare e forse in lontananza persino il suono della risacca… il grosso ventilatore! È spento!
Mi rigiro subito tra le lenzuola anelando al buio, al profondo… e torno a dormire.

***

Finalmente delle facce amiche.
C’è Mario, il mio agente e c’è anche Marta. Assieme a loro due dottori, uno sui trent’anni, basso e magrolino, ma forse è il camice bianco extra-taglia che lo rende così, mentre l’altro più anziano, di statura media, mi ricorda Andy Warhol ultimi tempi.
Dopo i convenevoli mi metto seduta, sempre stando sul letto. Iniziano le spiegazioni dei due mentre Mario e Marta annuiscono in religioso ascolto.

“Dottoressa, lei soffre di un disturbo mentale.” Esordisce il giovane.
“Un disturbo mentale?!”
“Sì, diciamo così, ma del tutto curabile.” Si affretta a tranquillizzarmi Andy Warhol.
“Beh, si spera…” di nuovo il giovane gli rimbecca.
Ma che sono: una coppia attempata? Mi chiedo osservandoli.
“Che… Che tipo di disturbo?”
Un’occhiata tra i due, scintille. Poi il giovane china il capo. Parla Warhol.
“Mai sentito parlare di earwarm?”
“Earwarm… earwarm…” borbotto a me stessa; “No!” Scuotendo il capo: “Cos’è? Ho i vermi nelle orecchie?” Quasi mi metto a ridere, ma mi controllo col gesto di raccogliere le gambe appoggiando il mento sulle ginocchia.

***

Allora… da quel che ho capito la traduzione di earwarm non va fatta in senso letterale; verme nell’orecchio, ma metaforico. Avete presente quando si usa l’espressione “un tarlo nella testa”?
Ecco! Stessa cosa.
In pratica non ho un verme che mi sta divorando l’orecchio interno, sarebbe anche difficilmente collegabile al motivetto assillante, ma è concettuale nella mia mente.
È un fenomeno che è stato studiato in tempi recenti. Si manifesta spesso in forma leggera, addirittura sembra essere sperimentato dalla gran parte della popolazione.
Un tipico esempio è quel tormentone estivo che non riusciamo a eliminare dalla nostra testa e che se insistiamo nel cancellarlo, facciamo peggio.
Così me l’hanno fatto intendere i dottori, nel mio caso l’effetto prolungato può generare delle malattie mentali, tipo una vera psicosi. Insomma ti fa impazzire come è successo a Mc Airon!
La cosa è stata studiata scientificamente anche (immagino) perché va a interessare il delicato e remunerativo settore della pubblicità. Del tipo: se ti faccio sentire la mia pubblicità un paio di volte e questa poi continua ad andare in loop nella tua testa… tanto meglio, no?
Poche battute, semplici, orecchiabili e ripetute. Tac! E il gioco è fatto. Un mondo che proprio non conoscevo.

Il brutto di questi earwarm è che (’sti maledetti!) si auto-alimentano. Cioè, con più cerchi di scacciarli più ti generano ansia e più si rinforzano… maledetti. Anzi no, maledetto, perché il mio è uno solo, sempre lo stesso, sentito in quella cattedrale gotica. Dannata me quando ci ho messo piede!
E sono sempre gli stessi tritoni che si susseguono dando l’effetto di una salita interminabile, inesorabile.
Ma al momento, la cosa più importante è riuscire a prendere sonno senza sentirlo troppo dentro di me, e qui devo tanto, tantissimo, a Marta, che forse ha inventato una cura semplice ed efficace per questa ossessione, almeno, con me, al momento, sembra funzionare.

Domani vi spiego che terapia s’è inventata ’sta matta… lo so, devo ancora spiegarvi dove sono finita. Un passo alla volta. Comunque sappiate che non vedo l’ora di tornare a Venezia.

***

Oggi sono un po’ di corsa ed ho veramente pochi minuti da dedicare al nostro diario mattutino.
Per le otto devo essere in una clinica qui vicino per fare il test di audiometria. Per chi non l’ha mai fatto; vieni chiusa dentro una cabina di vetro insonorizzata, ti danno delle cuffie e devi premere e levare il pulsante quando senti il suono a varie frequenze, dai bassi quasi impercettibili ai super acuti… anche quelli impercettibili.
Non pensate a chissà che, il mio udito è normale come quello di tutti voi, solo un po’ più allenato. L’esame è un punto di partenza; vediamo se c’è una correlazione fisica intanto.
Ah sì, ma vi devo raccontare della “cura Marta”; così l’abbiamo battezzata, anche se i due dottori di ieri erano un po’ scettici sulla sua scientificità.

Ve la faccio breve. Anni fa Marta e Bo erano via per una piccola tournée. Non so se il loro agente fosse Mario, comunque erano stati alloggiati in un fatiscente residence dove una coppia vicino a loro non faceva altro che litigare tutta la notte.
La prima notte Marta e Bo la buttarono in ridere, ma già con la seguente divenne un problema. C’erano lavori e una fiera vicino, nessuna possibilità di spostarsi.
Alle tre Marta “aggiustatutto” si mise ad armeggiare con un vecchissimo condizionatore a parete, seminascosto nella stanza, i primi erano davvero giganti e rumorosi. Lo mise in moto!
Faceva un chiasso infernale e non rinfrescava, ma Marta sapeva che li avrebbe aiutati.
Spostarono il letto nelle vicinanze e poterono dormire; le urla della coppia indemoniata non erano più udibili mentre il fracasso del condizionatore monotono e continuo si trasformava in un fastidio innocuo, una specie di rumore bianco.
Ecco che ci faceva l’enorme ventilatore industriale appoggiato davanti alla finestra: allontanava il motivetto dalla mia mente. Geniale no?
Lo so… nasconde il problema, lo tiene lontano… ma datemi un po’ di pace!

***

Ci sento benissimo!
Non avevo dubbi, anche se un pochino mi ero fatta influenzare dalle varie opinioni sentite in questi giorni.
Si sperava che il motivetto fosse in qualche modo riconducibile a una sorta di lesione fisica tra orecchio interno e il modo in cui le informazioni sono passate al cervello.
Mi ero fatta influenzare perché avevo fame di sapere, di scoprire il perché di questo motivetto ossessionante che si ripete nella mia testa, ma ora per fortuna almeno riesco a dormire grazie all’espediente di Marta… il ventilatore industriale.

Sto raccogliendo le mie cose. Mi dispiace lasciare questo luogo meraviglioso sul mare, un posto che non conoscevo, sull’Atlantico. Ho anche capito come ci sono finita.
Presto torno a Venezia. C’è dell’altro… Marta aveva ragione su Mario, per ora non ve lo so spiegare. È una sensazione che via-via si va consolidando.
Peter è stabile, stabile nel suo delirio. Certo che se è da anni che va avanti così, ci credo che abbia tentato di infilarsi una penna nella testa sfondando l’orecchio… il dramma è che probabilmente non sarebbe servito a niente.
Ovviamente ho chiamato Atlanta suggerendo l’idea di Marta… magari qualcosina aiuta anche lui.

***

Ho fatto una bellissima passeggiata sulla battigia di questo mare un po’ strano, non tanto per il mare di per sé, alla fine l’acqua è un tutt’uno, ma intendo il posto.
Si capisce che siamo in America, sull’Atlantico, a nord della Florida, ma il posto non ha niente a che vedere con Miami Beach o realtà simili… non so perché, ma mi ha ricordato la Romagna, quella di quando si andava da bambini, buffo no?
Ho lasciato che alcuni ricordi venissero a galla, anzi, li ho praticamente cercati. Tra gli sciabordii per un attimo ha fatto capolino la folta barba di Capitan Branchie, ve lo ricordate?
Quel strano signore che guidava quella lunga barca, la moto-topo… chissà che fine avrà fatto. Tra l’altro, ora che ci penso; ma che ci faceva sull’isola? Che io sappia di lui non ha mai parlato nessuno.

Mi lasciano andare. Non che fossi reclusa, ma i dottori pensano che riuscirò ad affrontare il viaggio senza problemi, anche da sola.
Mario e Marta sono già partiti, dev’essere successo qualcosa a Bo, non di particolarmente grave, altrimenti me lo avrebbero detto, spero.
Torno ad abbracciare il mio piccolo, Antonio. Mi stanno aspettando a casa a Venezia. E poi scavo, diventerò un’investigatrice se serve, voglio capire che sta succedendo a me e a Peter.

***

Il jel lag sa fare brutti scherzi: vi siete mai trovate in coda alla cassa del supermercato chiedendovi: ma che ci faccio qui?!
Beh, non è grave dai, l’importante è tornare subito in sé, nell’immediato. Ecco, nel mal di fuso-orario l’immediato è un po’ più lungo.

La foto, la foto, giusto. L’avete vista tutte sui social. Siete curiose. Due motivi per cui mi trovo su un vecchio barcone sul Po.
Primo: il rumore continuo a bassa frequenza del motore, simile a quello del vaporetto mentre ormeggia è una compagnia costante, e voi sapete quanto mi faccia bene questo rumore bianco che allontana il terribile motivetto.
Secondo: sto andando a trovare un signore molto esperto di musica che ora vive come un eremita sulle rive del Po. Non resisto a dirvelo: in tempi di social media e di selfie istantanei, si tratta di una persona di cui si sa poco o nulla; è riuscito a far perdere le proprie tracce. Sono davvero impaziente di incontrarlo.
Nel frattempo dovremo affrontare questo temporale. Non penso che sia come uno di quelli terribili che almeno una volta all’anno sferzano la laguna, ma accidenti… nero è nero e anche il grande fiume inizia a far sentire il suo ampio respiro. Speriamo bene!

***

Che temporale ragazzi!
Persino i pescatori, i più stoici alla fine hanno dovuto lasciare la presa. Il nostro grande fiume si è proprio infuriato di brutto!

Ho dormito abbastanza bene, tolte due fastidiose zanzare che in qualche maniera sembravano refrattarie alla mia super lozione d’oltre oceano.
Il suono lento e profondo del vecchio motore diesel mi ha aiutato.
Mi hanno sistemato in un piccolo alloggio ricavato sotto coperta, tutto perlinato, pulito, proprio accanto alla sala macchine.

Oggi pomeriggio dovrei vedere la persona di cui vi parlavo.
L’amico in comune con Mario, che me lo farà incontrare, ha dovuto fare le sue per convincerlo, ma alla fine c’è riuscito. Diciamo anche che ha ammesso di essere rimasto incantato da una mia esecuzione, a Venezia, ancora quando ero giovanissima. Anche la notorietà delle volte può venir comoda.

***

E io che volevo parlarvi di come è andato l’incontro…

Sono ancora per fiumi, abbandonato il Po ne stiamo risalendo uno che non conoscevo; pensate che è artificiale, realizzato al posto di una strada, i veneziani lo avevano costruito ad uso commerciale e anche privato ovviamente.
Ogni tanto si scorge sulle rive una loro meravigliosa costruzione. Qualcuna di queste imponenti dimore la conoscevo, ma non mi aspettavo che ve ne fossero così tante sparse tra le campagne, e poi, vederle dall’acqua è tutt’altra questione. Sono davvero meravigliata da tutto questo.

C’è un pensiero, bello, quasi romantico che non riesco a levarmi dalla testa mentre osservo questi paesaggi; mi commuove l’idea che una grande capitale del passato abbia costruito vie d’acqua anziché su strada che portassero a lei, e quale città poteva fare questo se non Venezia?

***

Guardate che ho scovato tra le erbacce!
La foto non mi è venuta storta perché ho chiesto di farmi scendere per osservare meglio questa meraviglia.
Mi sono bagnata i piedi, ma ne è valsa la pena.
Un ciclista incuriosito dalla scena di una ragazza ormai signora che scende da una barca un po’ inusuale per la zona (qui si vedono solo rare e immense chiatte) si è fermato ad osservarmi.

Prima che ripartisse gli ho chiesto se conosceva la villa veneta oggetto del mio interesse.
Tutto orgoglioso mi ha raccontato la sua storia. Fatta costruire dai Nani, antica famiglia veneziana, qui proprietaria di immensi terreni.
Ovviamente in origine stava proprio sulla sponda del fiume artificiale che vi ho già detto, le strade di Venezia erano fatte d’acqua, poi però con la caduta della repubblica, il riassetto del territorio ecc., l’urbanistica è stata modificata, con l’innalzamento dell’argine.

I Nani, ricchissimi, vollero il massimo. Chi dice fatta dallo Scamozzi chi dal Longhena. Mi figuro la conversazione davanti a una tazzina di pregiatissima sostanza nera, una novità dal Nuovo Mondo, la cioccolata, conversazione traslata nel salottino al tempo presente.

“Bella casetta! Chi te l’ha costruita?”
“Mah, mi pare Calatrava…”
“Dubito sai. Lo conosco, era impegnato in Spagna.”
Sbadiglio.
“Mah, ora che ci ripenso… sai che mi pare sia stato un certo Renzo Piano…”
Rido tra me, mentre risalgo in barca coi piedi inzuppati. Meglio bagnarseli che rischiare un scivolone.
Oggi pomeriggio si arriva. Spero!

Ciao!

***

Vivere in golena!

Beh, prima dovrei dirvi di che si tratta, visto che anch’io, creatura anfibia, non lo avevo molto chiaro.
Prima delle grandi alluvioni del ’900 molte case erano affacciate sul fiume. Ma con l’ultima devastante, mi pare nel ’66 si decise di costruire dei super argini in grado di proteggere la pianura da ogni possibile alluvione.
Queste strutture, alte diversi metri e abbastanza larghe da ospitare strade sulla sommità, spesso si percorrono in macchina o in autobus, per forza di cose hanno chiuso isolandole verso il fiume molte di queste vecchie abitazioni.
I terreni con le case, i piccoli quartieri, rimasti tra gli argini e il fiume: queste sono le golene e con mia sorpresa spesso sono ancora abitate.
Un paesaggio da poesia, da scrittori e scenografi dei bei tempi andati, quando i nostri registi, maghi della pellicola in bianco e nero, dettavano le regole del cinema al mondo.
Ma anche un paesaggio che ti lascia senza il respiro quando il fiume comincia a fare le fusa, e sale, sale, sale senza sapere quando si fermerà.
Capita così che la tua casa possa essere allagata ogni due tre anni e che tu possa perdere tutto quello che hai, senza indennizzo.
Preparati a caricare tutto sulla tua barca, non tutto, magari! Solo le cose più preziose.
La persona che devo incontrare, un ex maestro di musica, a quanto pare vive così, a due metri dall’argine: un vero border-line!

***

Sto lanciando sassi in un piccolo stagno, probabilmente quel che rimane di una breve esondazione, magari avvenuta mesi fa.
Sono riuscita a caricare il telefono quel tanto che bastava per sentire il piccolo, che sta benissimo.
Rimango in attesa, fuori da questa strana costruzione; un miscuglio tra una struttura galleggiante per l’acquacoltura e un bunker in cemento armato. Mai visto nulla del genere.
Mi pare Berto, sì; il signor Berto che mi ha accompagnato fino a qui, mi ha detto che il tizio ne fa uno strano uso ma intelligente.
Il cemento armato è in grado di resistere alle inondazioni, quando va sott’acqua il maestro non fa altro che salire sulla parte galleggiante, mi pare un enorme ossigenatore per l’acquacoltura, portandosi dietro le sue quattro carabattole, aspettando che il fiume si sgonfi. Poi tornato normale una bella pulita dalla melma e via.

A pensarci, dev’essere un’esperienza unica adattarsi, lasciarsi andare ai ritmi del fiume, della natura. Passare da una stanza di cemento di due metri senza finestre a vivere sopra una specie di zattera in acciaio con sopra una tenda da campeggio.
Fuori dalla capanna, metà cemento metà acciaio, ci sono appese conchiglie di fiume, davvero enormi, e strisce come grosse collane fatte di teschi di pesci, anche questi molto grandi.
Insomma, sembra l’eremo di un personaggio metà barbone e metà santone.
Mi hanno detto che è tranquillo, che non devo avere alcun timore, anzi, sia il signor Berto che la barista del bar-tabacchi, l’unico del paese vicino, mi hanno pregato di usare un certo tatto essendo lui di una sensibilità smisurata. Ma pensa te dove sono capitata!
Vento. Suoni.
Sono le conchiglie che si muovo, si sfiorano, sbattono. Si danno di gomito divertite dai miei sguardi incerti. Il concetto è simile a quello dei campanelli di bambù.
Mi alzo dalla grande boa trasformata in panchina. Osservo il fiume. Eccolo finalmente!

***

La barca di legno si avvicina lentamente al tratto di sponda sabbiosa, dove sto io. A una ventina di metri punta nella mia direzione, come volesse tagliare il fiume attraversandolo. Accelera emettendo qualche scoppiettio. Una densa nube di fumo bianco esce dal motore di poppa, un fuoribordo nero abbastanza vecchiotto.
Mi volto allertata dal rumore di uccelli e fruscii tra i cespugli. Il suo arrivo va a incrinare la patina di pace che avvolgeva questa piccola oasi. La fauna fugge via, fino a poco fa a quanto pare del tutto indifferente alla mia presenza.
Eccola! Esce dall’acqua a tutta velocità portando il vecchio scafo quasi completamente fuori sul sabbione. Si alza in verticale il motore, ora spento, mettendosi a riposo.
Con una cima in mano scende un signore sui sessanta. Pantaloncini corti beige e canottiera bianca, immacolata. Va verso un albero abbattuto, sradicato a metà. La lega attorno. Torna alla barca. Si appoggia al bordo con la schiena e si pulisce i piedi con un asciugamano rosa, questo non proprio immacolato. Lo getta a bordo. Infila dei mocassini marroni, quelli di marca, li riconosco da qui dalle suole bianche.
Mi passa di fianco, ignorandomi completamente. Va dentro al bunker di cemento. Brontola tra sé ed esce con una lattina di birra in mano. Si avvicina mentre la apre. Ne beve un sorso mentre mi osserva di traverso. Deglutisce rumorosamente; immagino che non sia granché fresca. Si pulisce la bava schiumosa.
“E tu? Saresti la famosa organista col cervello in tilt?”
Beve un altro sorso mentre torna verso la barca.
Lo fisso un po’ stralunata da tutta la situazione, quasi irreale. Sospiro mentre scuoto la testa; in che situazione andrò a cacciarmi adesso?

***

Il maestro della golena

Stiamo seduti nella stretta cantoria della piccola chiesa del paese più vicino, uno di quei gioiellini muniti di un antico campanile sparsi tra le campagne del Polesine, luoghi interessanti che ho imparato a conoscere in questi giorni.
L’organo è piccolino e un po’ trascurato ma è abbastanza intonato. I pannelli di legno che lo rivestono in alcune parti sono tarlati, in altre mostrano i resti di una pittura a tempera che doveva essere abbinata a quella della cantoria; scene dell’Antico Testamento.
Nel ’700, forse già a fine del ’600, per le poche anime di questo borgo dev’essere stato una vero accadimento vederlo istallato e soprattutto sentirlo suonare. Chissà quanta trepidazione in paese. Un pensiero mi sfiora: bastava davvero così poco per essere felici?
Il “maestro della golena” – così l’ho scherzosamente descritto al mio Antonio – sta suonando una semplice canzone popolare che via-via va trasformandosi in una vera improvvisazione. Nonostante i limiti dello strumento, in particolare della tastiera che è davvero piccola – avete presente i primi organetti a fiato che ci regalavano da bambini? – riesce a fare un’esecuzione davvero convincente; improvvisare in modo tanto naturale all’organo non è da tutti. Già: senza dubbi, seduto davanti a me c’è un fuoriclasse. Merita la mia considerazione, vorrei conoscerlo meglio. Ma visto il personaggio e la conversazione assente, o meglio, univoca, mi servirebbe aprire una breccia o una chiave d’accesso per varcare la soglia… telefonerò a Mario.

“Va tutto bene Anna?”
“Certo! Sono in paese, qui hanno ancora il telefono col filo.”
“Frequenti le osterie adesso?”
Valà… non c’è altro.”
“Dimmi, che ti serve?”
“Ho trovato il tuo personaggio, quello che mi hai caldamente consigliato d’incontrare.”
“Certo, il maestro. Vedrai che ti verrà utile. Questa brutta cosa Anna te la devi risolvere un po’ da sola, non è come uno di quei bei malanni chiari come un osso rotto o un’appendicite, capisci cosa intendo?”
“Sì, immagino che sia per questo che esistono migliaia di specialisti e annessi ambulatori.”
“Vena polemica?”
“Assolutamente no.”
“Beh? Che ti ha detto? Gli hai parlato del… del motivetto assillante?” Lo dice quasi bisbigliando come avesse timore di risvegliarlo.
“Non ancora, ma penso che si immagini qualcosa visto come mi ha definita.”
Ridacchia. “Come, Anna?”
“Pensa che abbia il cervello in tilt.”
Ride ancora, ma più rispettoso.
“Sì, hai ragione. Gli ho accennato qualcosa quando l’ho contattato. Pensa! È stato il giorno che eri venuta qua in ufficio, prima dell’aqua alta.”
“Sì, me lo hanno detto che non è facile trovarlo quando è per fiumi.”
“Figurati! Lì sei in Polesine, gente del Po.”
“Che vuoi dire?”
“Niente, niente.”
Mario sospira, forse con l’intenzione di farsi sentire.
“Glie ne ho parlato perché anche lui a modo suo si è scontrato con qualche problemino di tipo…”

“Tipo?”
“Mentale, mentale ecco!”
“Ah! Grazie.”
“Non prenderla male.”
“Comunque non serve uno specialista per capire che il maestro di golena è un po’ picchiatello.”
“Ma chi? Davide?”
“Lo so soltanto ora come si chiama davvero.”
“Ma scherzi? La sua è solo una profonda timidezza accompagnata da un altrettanto profonda insicurezza, non parliamo dell’ansia praticamente patologica. In realtà prima di insegnare organo a quattro bambini, Davide è stato un grande pianista.”
“Ed è andato in tilt…”
“Non precisamente; non ha retto. Non ha saputo reggere alle critiche, ai rosiconi, al nostro mondo di veleni e invidie. Si è chiuso in se stesso, è stato persino in clinica. Anna, sai quanto sia labile il confine tra autodeterminazione e totale-apatica-sconfitta. Basta una goccia, la critica perfida nel momento di massimo sconforto e di debolezza, e si crolla.”
“Immagino.”
“Certo, tu lo immagini ma non puoi capirlo. Tu sei sempre stata quella del non ti curar di loro ma guarda e passa. Una tua capacità straordinaria che spero non perderai mai.”
“Sono una profonda egoista Mario.”
“Lo so, io so che si nasconde sotto alla nostra organista un po’ ingenua, non ti preoccupare. Il tuo segreto è al sicuro.”
“E quindi ’sto maestro…”
“Il maestro della golena, mi fai ridere Anna.”
“Era per spiegarlo al piccolino.”
“Se Davide ti avesse sentito trent’anni fa, prima di…”
“Ma certo! Che stupida! Ora Ho capito! È Davide Gotthelf, con la H! E che aspettavi a dir–”
“E certo che è lui. Complimenti, ci sei arrivata.”
“Ma com’è finito in Polesine?”
“Storia lunga…”
“Ma allora è stato uno dei tuoi? Forse uno dei primi musicisti che hai rappresentato. Ma tu sarai stato un ragazzino?”
“Per poco, per poco…”
“Ma era strepitoso! L’avevo sentito suonare a Venezia La Tempesta al piano, pensavo che bruciasse le corde da tutte le note che ci metteva dentro. Come ha fatto il mondo a dimenticarsi di lui?”
“E tu? Come hai fatto?”

Touché!”
“Beh dai… rimanendo in lingua; c’est la vie!” Sospira.
La me scusa! Vola ’na carega?
“Hai detto qualcosa Anna?”
“No niente, è la simpatica signora del bar tabacchi e anche trattoria. Mi porta una sedia, ha visto che qui si fa lunga.”
Sospira ancora, preoccupato.
“Ne avete parlato?”
“Non ancora. È per questo che ti ho chiamato, volevo aprire una breccia, ma ora che ho scoperto chi è…”
“Soprattutto chi era, Anna.”
“Sì, è uguale, beh, adesso mi si apre un mondo.”
“Anna, odio, sai che odio chiedertelo…”
“Sì, l’ho risentito l’altra notte, poche note lontane via-via sempre più forti, ma poi…”

“Poi cosa Anna?”
“Poi è successa una roba davvero curiosa, ma te ne parlerò più avanti, anche perché non vorrei svegliare il can che dorme.”
“Okay, mi raccomando.”
“Cavoli sì. Andiamo in fondo, devo. Tra l’altro come dici tu, chi potrebbe mai aiutarmi in questa cosa… cervellotica?”
“Una raccomandazione, non a te direttamente; vacci a piano col maestro, altrimenti scappa e non lo rivedi più. Quel vecchio organo lassù è uno dei suoi posti sicuri, se è a suo agio sicuramente è più disponibile, dovresti tentare un approccio con la musica.”
“Beh, qualcosa ha improvvisato.”
“Ma scherzi Anna? Ottimo segno! E tu non hai suonato?” Mario sembra stupito da questa apertura.
“No, appena ha finito l’improvvisazione ha chiuso i registi e spento tutto. Poi mi ha guardato per qualche secondo, ma non negli occhi, e siamo scesi.”
“Quando ci tornate?”
“Domani pomeriggio, finita la pesca in barca.”
“Ascoltami! Che tu suoni o no, una volta finito e lui chiude tutto, stendi sopra ai tasti il panno di raso rosso. Sii teatrale, non importa, fatti vedere.”
“Ma scherzi?”
“Fidati. L’ho scoperto anni fa, vale tanto come una chiave d’accesso per il suo universo, non è questo che mi stavi chiedendo?”

Gli occhiali, gli occhiali… dove sono gli occhiali da vicino… sto proprio invecchiando.
Allora, qui dice che il giovane prodigio Davide Gotthelf è sparito dalla scena musicale da decenni per dedicarsi ad altri progetti lontani dal mondo a cui apparteneva, quindi dovrebbe avere più di settant’anni, altro che sessanta. L’aria del Po probabilmente gli ha fatto bene.
Striscio con l’indice sul display man mano che appare la biografia; non mi pare vero che lo smartphone riesca a prendere in questo angolino in penombra con la poltroncina. La camera è bellina, anzi, assomiglia più al monolocale di un residence visto che ha anche un cucinino.
Me l’ha rimediata Berto, l’anziano premuroso che mi ha accompagnato in barca dopo esser usciti dal Po. Mi ha procurato anche una bicicletta, di quelle con la pedalata assistita per muovermi tra il rifugio del maestro in golena, il borgo dove pranzo nel bar tabacchi, questo posticino, e la chiesa col vecchio organo.
Ah, questo è interessante: il maestro poi ha avuto un momento di ripresa grazie alcuni concerti eseguiti nel Nord Italia, forse il periodo in cui ha collaborato con Mario. Dopo un anno si è eclissato di nuovo, forse per le critiche ricevute da alcuni giornali… “Che cattiveria!” esclamo a voce alta. Spengo il telefonino. Mi alzo e vado alla finestra. Una leggera nebbiolina si sta formando sulle acque quiete del canale. Sulla riva un signore calvo porta a spasso il cane, eccolo che marca la panchina. Si gira di colpo per guardarmi come avesse percepito che lo stavo osservando. Giro lo sguardo fingendo disinteresse.
Dai… doccia, e se c’è segnale tento una video-chiamata con Antonio, chissà come sta andando con quella lunghissima poesia.
Ho visto che c’è anche una piccola pizzeria per venir qui, la strada è quasi tutta ciclabile, non dovrei essere investita.
Devo farmi forza, devo uscire! “Vai Anna!”

***

Pizza alla diavola

“Tutto bene signora?”
“Certo, la Margherita era buonissima, grazie.”
“Un dolcetto, un caffè, un amaro?”
“Mm… sono astemia e vorrei tenermi leggera.”
“Capisco.” Se ne va.

Che donna strana. Sessanta anni e una sua classe indiscutibile, si muove tra i pochi tavoli in modo elegante, spalle dritte mento alto, pesino quando vi appoggia i piatti sopra. Sembra una dama uscita da un quadro del Veronese, niente a che vedere con le figure immortalate in bianco e nero nelle immagini della grande alluvione del Polesine, quelle che passano sui social. Eccola che torna, dev’essere il conto.
“Questo lo deve assolutamente provare. L’amaro della casa. Lo facciamo noi, tutto genuino. Poco alcol e calorie.”
Mi scosto un po’ indietro.
“E come potrei rifiutare, grazie.” Afferro il bicchierino. La osservo meglio seguendola con lo sguardo. Accidenti, è davvero una donna singolare, bellissima. Sembra nettamente in contrasto, quasi un’antitesi di tutto ciò che la circonda. Anche la sua inflessione non è di qui, l’ho sentita parlare in dialetto, ma si intuisce che non è madre… madre dialetto… ridacchio sonoramente. Mi copro la bocca con la mano, poi stringo il mento; sembrerò una scema!
Ho un amico, conoscente in verità, professore di lingue. Un signore anziano un po’ buffo per alcune sue uscite rabbiose. Ha fatto del dialetto veneto una malattia. Lo considera una vera lingua, coi suoi dialetti. Una volta un po’ nervosetto mi fece: “Ma secondo te si parlava prima il veneto o l’italiano?” Io scossi le spalle indispettendolo ancor di più. “C’era già prima, o no?” mi becerò in faccia. Si stava per arrabbiare, forse aveva bevuto un bicchierino di troppo, mi pare che venne in soccorso Mario prendendomi a braccetto.
A volte ci si imbatte in situazioni imbarazzanti, non sai che dire e se parli magari fai peggio. L’importante è non farsi fregare una seconda volta.
Giro il bicchierino facendolo scivolare sul legno del tavolo, poi lo prendo tra pollice e indice. Lo porto vicino alle labbra.
In effetti non sono una vera astemia, non nel senso medico del termine diciamo, non è che se bevo un po’ di alcool poi sto male, al mio corpo non manca quella proteina che lo scinde in altro metabolizzandolo… è già in bocca!
Che piacere. Amaro e dolce combattono con forza mentre un mantello di erbe aromatiche vi si adagiano sopra.
Accidenti! L’ho già finito, ma non è possibile? Ecco perché ridacchiavo. Mi guardo attorno un po’ stranita con la faccia accaldata, ma mi sento bene, leggera.
“Ne vuole un altro signora?”
Faccio per risponderle, ma quasi scoppio a ridere. Cavoli non mi staranno drogando?!
Che leggerezza e quale senso di euforia sto provando. Rigiro il secondo bicchierino sul tavolo, già a metà.
D’improvviso, senza accorgermene, mi faccio spavalda… Motivetto diabolico dove sei? Perché non ti fai sentire? Dai, ti aspetto, ti sfido. Diavoletto, esisti? dove sei?
Ma non succede niente.
Visto Anna? Ci voleva tanto? Il motivetto è un circuito cort– no, aspetta, un corto-circuito nella tua testa, torna a goderti serena la tua vita… accidenti ma fa proprio schifo quel ragno peloso sulle tende, gli si vedono gli occhi rossi fin da qui! Faccio per alzarmi, un giramento, un boato che scuote il locale. Sotto alle mie gambe si fa il vuoto. Tutto scivola nel fosso che fiancheggia la pizzeria in un rumore assordante. Urla la coppia vicino, il pizzaiolo e la dama del Veronese. Mi ritrovo aggrappata, sto per cadere nella voragine che si è creata sotto di me. L’acqua fangosa mi sta per trascinare nel suo gorgo dove sarò fatalmente inghiottita. Allungano tutti la mano facendo poi una catena, ma sono ancora troppo distanti, incitano stravolti ma non sento le loro voci, mi aggrappo ai ferri arrugginiti usciti dal calcestruzzo frantumato del pavimento. Una trave maciullata in acqua adesso mi schiaccia le gambe. Le mani allentano la presa. Dai ferri arrugginiti esce un liquido nero, cola giù dalle braccia. È il mio sangue. Sto per morire davvero, non non voglio… svegliati Anna… no, è tutto vero! O mio Dio… aiut… A… Una visione, un lampo che rompe il tempo, la materia: “Antoniooo!”
Penso di aver urlato con tutto il fiato che avevo in corpo. La dama del Veronese corre subito al mio tavolo, mentre la coppietta nell’angolo ammicca divertita. Il cuore batte veloce. Mi tasto la fronte, sto sudando freddo. Correrei subito in bagno se non temessi che le gambe tremanti mi possano tradire. È stato tutto così dannatamente reale.
La cameriera dama mi sta parlando, ma fatico a capire cosa dice. Bicicletta, taxi, molto dispiaciuta, non credevo… probabilmente si sta scusando ma sono ancora troppo sconvolta. Mi porto le mani tra i capelli, sono sicura d’aver sognato ad occhi aperti… ma che diavolo. Il diavolo! Ecco cosa stavo facendo: lo stavo sfidando… Antonio, o mio Dio! “An… Antoniooo!” un altro urlo. Ora si sta per alzare anche la coppia, ma rimane al tavolo. Vedo che la cameriera parla sottovoce col pizzaiolo allungatosi da dietro il banco.
Arriva come un pugno allo stomaco l’immagine di Antonio. È grande, un bel giovane, mi sorride sofferente mentre da un mondo lontano lo accarezzo… soffre, ma solo fisicamente, coi suoi occhi mi sta dicendo perdonami mamma… se ne sta andando, arreso, senza soffrire, lo scuoto e lì la vedo: nel suo braccio ancora infilata una siringa con lo stantuffo sporco del suo sangue.
“Mi dispiace molto signora, l’ho incoraggiata io ad assaggiare l’amaro della casa.”
“Il ba… il bagno per favore!”
“Là, nell’angolo, dietro all’appendi abiti.”

Mi guardo allo specchio. Si sente una risata, forse è per me, alzano la musica, suona una strana canzone degli Eurythmics che conosco: The city never sleeps. Fortuna che non ero truccata, sarei stata la maschera di Jocker. Non ho il coraggio di uscire per la vergogna. Ma devo farlo, ormai sono chiusa qui dentro da una ventina di minuti, non vorrei che venissero a bussare.
Cammino inebetita fino al tavolo ma senza inciampare. Il pavimento sembra floscio e ondeggiante come quello della cattedrale di San Marco. Mi siedo. Afferro un pacchetto di grissini torinesi, lo strappo e inizio a mangiare masticando nervosamente.
La coppietta si rimette a parlare, il pizzaiolo consegna delle pizze nei cartoni d’asporto mentre la cameriera non si vede, ma si ode il suo parlare in dialetto.
Mangio un altro grissino, inizia ad andar meglio.
Altri cinque minuti e poi sarò in grado di andarmene.
Devo richiamare Antonio, allertare Lucia, la tata. È stato tutto così dannatamente reale… “Finiscila qui!”
“Vattene! È finita! Sei una brutta tro–” osservo la coppietta mentre mi tappo le orecchie in tempo e in quell’attimo ecco che dal profondo insondabile il ritornello fa capolino con qualche nota. Sta ritornando!
Il ragazzo si alza bruscamente, facendo cadere la sedia all’indietro, lancia il pesante tovagliolo in faccia alla compagna, ex-compagna a ’sto punto, si avvia verso il bancone del pizzaiolo, per un attimo mi squadra: ma è Antonio?! È Antonio a vent’anni! Faccio per fermarlo prendendogli il braccio nell’attimo che una lama lo raggiunge alla schiena. La ragazza è fuori di sé, spettinata fissa il vuoto mentre ansima affamata di ossigeno come avesse un attacco d’asma.
No, no, no! Ma che succede? È uno scherzo?
Il ragazzo è piegato sulle ginocchia a terra, cerca invano di arrivare al coltello con movimenti delle braccia sempre più lenti, si sta per spegnere. La cameriera si è attaccata al telefono, urla “presto, presto, fate presto!” mentre il pizzaiolo è combattuto se toglierli o meno il coltello piantato sotto al collo, nelle cervicali.
Ecco che vomito!
Corro in bagno, a metà strada non ce la faccio più. Combino un disastro. Mi chiudo dentro. Non so quanto ci rimango stando seduta sulla tazza.
Mi decido. Alzatami mi osservo allo specchio e inizio a pulirmi alla meglio. Una risata prima mi mette i brividi, poi imbarazzo, senz’altro è per me.
Hanno alzato la radio, suona una stranissima canzone di Anne Lennox, The city never sleeps… ma aspetta, l’ho sentita prima? com’è possibile?
Mi sciacquo la faccia con l’acqua fredda. Mi osservo gocciolante.
No, non può essere una coincidenza. Va bene la canzone, ma prima anche la stessa risata… no!
Mi rivedo la brutta scena di Antonio in over-dose, l’accoltellamento, tutto così reale, vivo, come fosse accaduto, come stesse accadendo.
Non so spiegarmelo, ma ho la convinzione che il bel universo di Anna la organista si trova distante quanto un sospiro da tutta questa follia così prossima al reale.
Impaurita, tremante, soprattutto insicura mi guardo di nuovo mentre incredula alle mie parole sussurro: “Scusa, non ti sfiderò mai più.”

***

Hangover (dopo-sbornia)

Eccola maledetta suoneria!
Allungo il braccio al comodino, striscio sul display ma invano. Continua a strimpellare. Accidenti! Devo alzarmi.
Mi metto seduta sul bordo del materasso e striscio con impegno. La sveglia si spegne. Rimbomba ancora nella testa testa: sembra abbia suonato per mezz’ora!
Mi alzo intontita per andare al bagno preda del senso di nausea, il passo è incerto, quando d’un tratto mi viene in mente l’accaduto della notte prima.
No, no, dimmi di no! Dimmi che non è successo davvero!
Corro alla sedia quasi inciampando, che capogiri, e prendo la giacca, scruto la manica: crosticine. È sporca di vomito. Mio Dio, speravo tanto che fosse stato un brutto sogno. Che vergogna, non voglio più uscire di qui, anzi, voglio andarmene via, scappare come una ladra.
Mi faccio una doccia rapida per rimettermi in sesto e riordinare i pensieri, peccato che non ci sia una vasca, mi aiuterebbe senz’altro un bel bagno caldo col sale.
Esco fuori tra i vapori con l’accappatoio che uso per i viaggi, decisamente più leggera.
“Anna! Anna!”
Chi è che urla?
“Anna!”
Mi affaccio alla finestra: è il signor Berto, quello della barca.
“La bici xe carica.”
“Perfetto grazie! Gentilissimo!”
“Il maestro l’aspetta al bar in paese. Al borgo.”
“Ma, ma adesso?”
“Sì, è là… saluti.”
Lascia la bici in cavalletta e se ne va a piedi.
Mi prendo il tempo per un caffè, hanno avuto l’accortezza di rendere disponibile una piccola moca con dell’arabica ancora sigillato.

Sento i miei per una buona ventina di minuti. Antonio tutto bene, sapevo che potevo contare sulla tata. Mi chiede una follia, e non ha mai mollato di un euro, nonostante sia cresciuto e fattosi un bimbo responsabile. Dovrò rimettermi al lavoro presto per mantenere tutti e due.

Parto in bici lungo l’argine di questo canale che i veneziani usavano per raggiungere le loro sontuose ville, e anche per il commercio in terraferma ovviamente.
Dopo mezz’oretta arrivo al bar tabacchi. Sistemo la bici nella rastrelliere. Spingo la porta: è chiuso.
Sbircio dentro, non si vede nessuno.
Arretro di due passi. Ora vedo il cartello, un foglio A4; devo essere proprio rimbambita. In caratteri cubitali neri un bel: Chiuso per lutto. Si riapre il pomeriggio.
E niente; prendo la bici e me ne vado verso la golena dove vive il maestro, il maestro Davide Gotthelf.

Beh, c’è da dire che percorrere gli argini del Po in bici è abbastanza piacevole, oggi il cielo è nuvoloso ma pulito, non c’è umido nell’aria. Il fatto di essere sopraelevati anche solo di pochi metri, ma su una pianura vastissima, permette di vedere molto lontano. Dà gioia e un pizzico di quella sensazione di libertà che si prova in montagna. Ecco! Li vedo: i Colli Euganei, dietro quei monti lontanissimi che paiono vulcani c’è la mia Venezia. Un piccolo fremito, un sussurro nel petto… inizia a mancarmi, sistemo questa cosa e arrivo, mia badia.
Scendo nell’ampio spazio della golena, appoggio la bici al salice, qui lo chiamano sàlgàr e tiro fuori il pacchetto di kleenex dalla borsetta, ne sfilo uno e pulisco la boa trasformata in una panchina. Mi siedo, incrocio le gambe e aspetto: manca la barca.
Osservo le mie scarpe molto casual, distrattamente, finché dondolo il piede. Le indosso praticamente da quando è iniziata tutta questa storia del tritono. Hanno un che della vecchia signora ora che le guardo bene. Scuoto la testa: ma come mi sono ridotta?
Mi mancano i miei bei stivali, non so, mi sentivo più sicura, e magari più piacente, più desiderata, sono sempre stata convinta che oltre che esser comodi danno un che di sexy alle donne, anche alle signore di una certa età. Pensiero consolatorio volutamente cercato. Santo cielo!
Mi prendo la testa tra le mani: d’un tratto ho ricordato la cameriera di ieri e via di seguito il disastro che ho combinato. Ma c’è dell’altro, un qualcosa di più profondo che non viene a galla, soffocato dal magone del giorno dopo, qualcosa di sporco che devo aver combinato. Che avrò fatto?
Scavo nel mio inconscio lentamente, con il cucchiaino della consapevolezza, timorosa dell’ignoto. Appaiono d’improvviso spartiti, migliaia di spartiti fatti svolazzare via dal vento, musiche, sinfonie, vagiti di Antonio, la morte scampata d’un soffio assieme a quei due matti… Dio, alla fine quanto siamo profondi. Sospiro. Poi vengo distratta dal suono della barchetta, sta arrivando. Mi alzo mettendo la mano a tesa. È lui. Bene, c’ho azzeccato. Temevo di star qui tutta la mattina.
Anna su! Fatti forza e vai in fino in fondo.
Oggi voglio risultati, poi penserò a come scusarmi per ieri sera.
L’approdo del barchino si svolge esattamente allo stesso modo. Sparisce all’interno del bunker di cemento, poi esce fuori con la solita birra calda in lattina, metà gli va persa in schiuma mente la apre, sorrido, ma lui rimane imperturbabile.
Si siede sulla boa.
Guarda il grande fiume. “Che secca, speriamo che piova, e tanto anche.”
Poi continua: “Va capire che è successo…”
Sto per chiedergli che intenzioni ha, altrimenti capace che me ne torno a Venezia, ma si gira, ingoia un altro sorso che fatica a tener giù, “dicevo… che le è successo?”
Cado dalle nuvole, “dice a me?”
“Eh certo, vede altri?”
“Ma… ma si riferisce… alla, alla pizzeria?” Chiedo timidamente.
Scuote la testa. “Quella lì fa sempre di testa sua…”
Mi vergogno terribilmente, sento le guance surriscaldarsi, sicuramente sto arrossendo.
“Ma suvvia, Anna! Mica si vergognerà vero? Sono cose che possono succedere.”
Mi siedo al suo fianco. “Non dovevo bere,” mormoro afflitta. Inaspettatamente il maestro mi dà un pugnetto sulla spalla, non me l’aspettavo davvero questo gesto quasi affettuoso.
“La conosce maestro?”
“Chi? La moldava?”
“Sì… la cameriera, la bella signora. Difatti sentivo che aveva uno strano accento anche se parlava in dialetto.”
Si alza, va verso la riva, osserva l’orizzonte come un vecchio pescatore pensieroso, il vecchio e il mare. Mette le mani in tasca: “Discoremo…”
“Cioè? Vi parlate? Siete confidenti?”
Sorride mentre si porta la lattina alla bocca.
Finita l’accartoccia con la forza della mano, la lancia verso un barile di latta colpendolo sul bordo. Cammina rapido, la raccoglie e la getta dentro. Si sfrega le mani, mi guarda: “Oggi suoniamo e gli facciamo metter il muso fuori al bastardo!”
Scuoto i pugni come Antonio: “E vai!”

***

Rivelazioni musicali

Siamo sulla cantoria del piccolo vecchio organo. In realtà non è malaccio, è un buon strumento del ’700 a cui via-via nei decenni sono stati aggiunti nuovi registri.
Il maestro sta suonando da una buona mezz’ora. Io non ho fiatato, ne mi sono mossa dalla seggiolina che inizia a farmi un po’ male.
Sembra preso dai suoi pensieri, ogni tanto rallenta, sbaglia una nota. Tende a impastare alcuni passaggi. L’organo non è come il piano, se tu premi il tasto con più forza non ottieni un suono più intenso, anzi devi tener presente la meccanica, che è fondamentale. I meccanismi e l’aria che vi scorre dentro non rispondono velocemente come quelli di un pianoforte e se non stai attento, rischi di impastare le note.
Si ferma d’improvviso. Si alza, grigio cadaverico, con una faccia che pare stia per vomitare. Va all’interruttore generale e spegne la ventola che soffia l’aria. Il mantice si abbassa lentamente. Si mette la giacca di lino paglierina tutta stropicciata.
Ecco, lo sapevo, un altro matto. Ci mancava. Sto per maledire Mario.
Mi alzo facendo scivolare a terra il nastro di panno rosso. Lo raccolgo, lo sbatto un attimo… Ma certo! Il gesto del panno sulla tastiera!
Inizio ad accomodarlo lentamente sulla tastiera, il maestro che nel frattempo è chino per uscire dalla porticina mi sbircia stranito. Io lo guardo: “L’è! Ecco fatto. Ora è a posto.”
Mi sorride, mi prende per mano facendomi sedere sullo sgabello dell’organista, lui si siede al mio fianco. Apre il registro principale.
“Su, accendi Anna. Che aspetti?”
Non ci credo, ma che cavolo… ma voglio rimanere concentrata.
Suono un preludio di Bach, giusto per provare lo strumento. È leggermente stonato. Nel frattempo il maestro sposta le leve dei registri. Mi fa cenno di continuare. Altro pezzo, di Galuppi, mentre lui ascolta con gli occhi chiusi, un sorriso un po’ ebete tipico di chi se la gode veleggiando tra i pensieri, battendo il tempo con la mano.
D’improvviso mi strattona il braccio, mentre rotea le sclere. Sferra un pugno sul mobilio colpendo l’angolo. Che brutto rumore accidenti, come rompere una noce. Si prende la mano, ha rigirato le sclere, mi osserva stupito, ma quasi con premura. Ansima per parlare: “È tutto, tutto a posto Anna! Non preoccuparti!”
“Ma… ma almeno mi faccia vedere quella mano maestro. Cosa le è successo?”
Mi sorride, un sorriso tagliato da una smorfia di dolore… o forse c’è dell’altro. Una strana sensazione, un respiro gelido che viene dal mio petto: ho capito: ha paura. Il ricordo della notte precedente fa capolino, sto per mettermi a suonare qualcosa di mo-olto impegnativo, ho bisogno ci concentrarmi su qualcosa. Ma il maestro mi sussurra:
“Fai una scala, ripetila velocemente su tutte le ottave che riesci, usale tutte, anche la pedaliera.”
“Che scala?”
“Zitta! Fallo e basta.”
Non so nemmeno con che scala parto, sta succedendo qualcosa ma non ne comprendo la natura, inizio davvero a spaventarmi. Vado veloce, sempre più veloce, come stessero suonando quattro mani.
“Continua! Continua!”
Mi soffio il ciuffo.
“Brava Anna! Ora diminuisci la più bassa, la scala più bassa di tonalità… così!”
Agisce velocemente sulle vecchie leve variando i registri mentre io continuo quasi allucinata dal mio stesso motivetto che sta uscendo.
“Vai Anna, vai! Stiamo per sfiorare l’infinito ma senza mai toccarlo per davvero. Stai facendo una Scala Shepard, sale sale sale e non si ferma mai!”
Brividi per tutto il corpo. Un secchio di acqua ghiacciata svuotato sopra alla mia testa. Ora caldo, un fuoco che si propaga dalle mi parti intime. Santo cielo! Questo è il mio motivetto, il mio tritono, gli assomiglia da morire! Sale, sale, sale…
Non riesco a fermarmi, manca il respiro, ansimo, cerco ossigeno, il maestro guarda verso l’alto al crocifisso sopra di noi, sembra posseduto. Mi ricorda tanto quel dittatore davanti alle folle. Ma che ci sta succedendo?
Poi il suono si spegne, lentamente mentre il mantice si sgonfia inanimato. Due giri di ventola, un gracchio, forse un cuscinetto ossidato. Silenzio.
Ansimiamo!
“Santo cielo Anna! Che suonata!” Espira sottovoce il maestro.
Fatico a riprendere il ritmo del respiro, è come avessi preso un pugno nello stomaco. Il diaframma salta e non riesco a parlare come vorrei fare.
Mi dà le spalle, guarda giù, verso l’altare maggiore. Ora i suoi occhi esprimono esperienza, quasi saggezza.
“Cara la mia bella organista. Scelta come quel giovane promettente pianista.”
Non ne ero consapevole, ma stavo per ascoltare uno dei più originali monologhi della mia vita. Non pronunciai una parola, nonostante le sue pause lunghissime ed estenuanti.
“Hai il dono delle note Anna, le hai in testa. È per questo che lui ti ha portato fino qui. Il tuo tritono non lo puoi uccidere, perché è tuo, tu l’hai creato dal momento che l’hai sentito e fatto vivere nella tua testa. È un’illusione acustica se vuoi, ma ce l’hai dentro e lì dentro vale tanto quanto fosse reale. Se io adesso te lo cavo fuori, lui se ne impossessa.”
Pausa.

Sospiri.

“Anna? Esiste il suono? Esiste la musica? No, è solo nelle nostre teste. Esiste l’assenza di musica? Immagini il silenzio, ma quello che ascolti è solo la sensazione di silenzio, perché tu sai cos’è il suono.
Tu sogni di suonare Anna? Certo, e come ci riesci se nella tua stanza nulla sta suonando e non vi sono suoni.
È l’immaginazione mi dici tu. Certo, ma come fa? Non capisci che dentro di te c’è il suono che poi si articola in musica?”
Pausa.
Tutte domande retoriche che si sviluppano su una specie di teoria onirica, metafisica, quasi filosofica.
Ora la chiesa è buia, tolte le lucine e i lumini degli altari.
“Dentro di noi da qualche parte c’è il suono, la musica Anna. Alcuni sogni sono più veri del reale, se tu non fossi in grado di svegliarti, nemmeno sapresti di aver sognato fino al risveglio. Ma lì esso arriva, sei precisa quando riesci, sublime, ti ecciti ti esalti. No, non è immaginazione questa, noi la musica ce l’abbiamo dentro… da qualche parte.”

Pausa… lunga pausa. È notte!

Faccio per dire qualcosa, ma ricomincia.
“Noi l’abbiamo dentro, il suono e la musica, ci sono state date come dono.”
Si gira fissandomi, le sue pupille riflettono la lucina sopra gli spartiti. Ha la faccia assorta, ma consapevole. Se prima mi sembrava il Fuhrer quando alzava lo sguardo al cielo in preda ai suoi deliri di onnipotenza, che funzionavano eccome se funzionavano, ora sembra uno di quei busti dei filosofi greci.
Alza la mano, muove l’indice davanti al mio naso.
“Lui no, no-no, non ce l’ha. E l’anela, eccome se l’anela. Lo spazio che separa lo zero dall’infinito, il mortale dall’immortale. Lui vuole rompere questo spazio. Annullarlo.”
D’improvviso mi afferra le spalle e mi scrolla come un burattino!
“Lui vuole sentirti suonare Anna! Ti ha dato le note, ma non può sentirle, tu gli servi! Vuole che risolviamo il tritono ma con una scala discendete, l’opposta della tua, lo capisci?”

Mi alzo: “O santo cielo!” Metto le mani sul viso, e sapete che succede: scoppio a ridere.

“Ti sei messa a ridere?!”
“Ma sì… non sai quanto me ne vergogno Mario.”
“E adesso dov’è?”
“È su che sta suonando.”
“Ti ha detto qualcosa d’altro oltre alla sua teoria del diavolo?”
“Sì, è andato avanti parecchio. Sembrava più un’introspettiva a voce alta, sai quei monologhi da teatro sperimentale?”
“Mm, capisco. Che ne pensi?”
Soffio forte, riavvicino il telefono.
“Penso che sia un po’ pazzerello, ma una cosa gliela devo.”
“Sì?”
“Beh, sapeva di cosa stavo parlando, del mio problema, e l’ha evidenziato.”
“E l’ha?!”
“L’ha tirato fuori.”
“Anna, non ti sento, va via la voce.”
“Pronto, pronto?” M sposto di alcuni passi sul sagrato della chiesetta.
“Mi senti A- Mi s- Anna?”
“A colpi.”
“Dai, ci aggiorniamo, inutile parlare così. Stacci sotto anche se ti p- un po’ str-bo.”
“Okay, strambo, ho capito. Ciao.”
Guardo il display, sto per spegnerlo:
“Mario, Mario, aspetta!”
Interferenze, voci dall’oltretomba oppure di alieni. Scuoto la testa mentre sorrido tra me; chissà se qualcuno ha mai registrato questi rumori stranissimi.
“Dimmi tutto Anna?”
Meno male. “Mario, Peter…”
“Sì.”
“Sapresti dirmi dell’allucinazione-”
“Dell’al-?”
“Mm… che palline!”
“Questa l’ho capita Anna. È importante?”
“Sì… provo a spostarmi.”
Faccio una corsetta, salgo sull’argine più vicino. Sono a metà scalinata.
“Pronto, mi senti?”
“Sì, va meglio.”
“Allora… Peter, il motivetto ridondante, l’allucinazione, come la percepisce?”
“Come Anna?”
“Il mio continua a salire ed ora grazie al maestro ho capito come, Peter sai com-”
“Scende!”
“Ah…”
“Non va bene Anna?”

“Anna? Anna?”

“Stai bene Anna?”

Mi siedo a terra. Spengo il telefono e lo appoggio sull’erba. D’improvviso è venuto a galla il motivo di questo magone post-sbornia che mi porto appresso da tutto il giorno. Finalmente ho capito che ho fatto. Ci ho parlato! Mi sono persino scusata! Non sarebbe niente se non fosse per il fatto che ero così dannatamente sincera.
Ho riso in faccia il maestro, forse per timore della verità, di questo alone grigio di semi-consapevolezza quasi inconscia circa l’esistenza del male o, se fosse vero, di lui, come continuava a chiamarlo il maestro. Che sia questo lo svelamento che ha portato Peter a un passo dalla follia?

***

Il copritastiera rosso

L’aroma si diffonde prepotentemente mentre apro il barattolo di latta tirando la linguetta, me ne sono fatti prendere un paio da Berto, il mio accompagnatore di viaggio. Al bar tabacchi non avevano la marca che volevo io e poi mi sembrava cosa buona e giusta lasciargliene una scatola. Sono tutti così gentili qui… e anche diversi, e pensare che in linea d’aria saremo a un centinaio di chilometri da casa mia, dal Canal Grande, chissà un tempo che valenza aveva sentire questo toponimo per gli abitanti di un posto così.

Vado con la tazza alla finestra, lungo il canale non si vede anima viva, nemmeno il signore calvo che portava a spasso il cane.
Lo sorseggio con calma, gustandomelo tutto quanto: moca da tre tazzine. Finto, appoggio la tazza nel lavello e vado alla poltroncina e mi siedo col telefono nell’angolo dove arriva un segnale decente. Mi rilasso con un bel respiro mentre chiamo il mio Antonio, non vorrei che dal mio tono di voce trapelasse la preoccupazione, quasi il disagio, che mi porto dentro dopo quanto vissuto col maestro Gotthelf.

Tutto bene, oggi vanno su una delle nostre isole a raccogliere la plastica, che belle queste iniziative. “Mi raccomando tieni sempre i guanti!” l’ho ammonito, ma tanto so che non ce n’è bisogno, è un bimbo così responsabile, devo dire che la Lucia ha fatto davvero un buon lavoro con Antonio… con quello che mi costa!

Decido di andare in golena per vedere che sta combinando il maestro, bene o male è riuscito a dare una sorta di spiegazione al mio problema e a quello di Peter, a questo punto mi sembrano della stessa natura, se poi ci possa essere dietro lo zampino del diavolo… beh, questa è tutt’altra questione e la metterei un pochino da parte… anche se come l’ha raccontata il maestro è abbastanza suggestiva.

Percorro l’argine pacifica con la pedalata assistita, poi ci metto del mio andando velocissima. La giornata è bigia, parecchio, la nebbiolina si sta alzando e forse influisce sulla psiche perché mi sento meno lucida del solito, un po’ intontita ecco. Anche a Venezia vi sono giornate come queste, ma sono quei giorni in cui le facciate di alcuni palazzi e di certe chiese, come gli Scalzi, cambiano sfumature rivelando con tua sorpresa un già visto ma rinnovato, con sottofondo una leggera malinconia.
Percorro la discesa che porta alla piccola golena, il grande fiume è lì che m’aspetta.
Intravedo tra gli alberi il bunker di cemento armato, c’è una macchina di fianco con la porta aperta. Urla! Urla femminili, urla da litigone.
Ma che succede?!
Quelle che da distante mi sembrano due donne si stanno insultando, poi parte uno spintone rapido ma leggero come il morso di un cobra da quella più alta. Mi fermo di colpo, scendo dalla sella mettendo giù i piedi. Non mi va proprio di essere coinvolta in queste cose, e poi ho già il magone. Che strazio.
Ecco un altro spintone, questa volta la donna più bassa vola a terra, letteralmente; un volo di un paio di metri strusciando la schiena, mentre l’altra si volta, senza pietà, e con tre falcate da giraffa amplificate da una mini vertiginosa raggiunge l’auto e parte sgommando.
Deve essere fuori di sé perché perde il controllo della piccola utilitaria e fa un paio di testa-coda alzando un gran polverone, poi esce dalla nube a tutta birra puntando nella mia direzione. Il cuore mi scoppia in gola, appena il tempo di buttarmi in parte mentre questa pazza piomba sopra la bici scaraventandola giù per l’argine tra le erbacce. Alzo lo sguardo da terra mentre la vedo allontanarsi col paraurti a penzoloni che gratta l’asfalto facendo un gran baccano.
Mi alzo, mi do una ripulita alla meglio, le mani mi fanno un po’ male, ma niente di che, per mia fortuna il terreno dove mi sono buttata era sabbioso. Vado alla bici, la alzo: sta messa male, molto male. La lascio cadere sopra a quelli che sembrano i resti di un fanale. Levo la borsa dalle spalle che pare illesa, per sicurezza sfilo il telefono. Tutto okay. Poi guardo verso la golena. L’altra donna no si vede. Santo cielo, che faccio ora?!

Sblocco il telefono e tengo pronto il numero per le emergenze, mi avvio verso lo strano eremo del maestro. Eccola! La donna seduta a terra sta singhiozzando, la nuca in basso tra le mani, gomiti sulle ginocchia, guarda a terra. Passa un minuto in silenzio, ha capito che ci sono ma non ci muoviamo, poi alza lo sguardo: è la cameriera della pizzeria!

“E quindi Anna?”
“E niente, ho cercato un po’ d’acqua, poi per fortuna dentro al suo erem–”
“Il bunker?”
“Sì esatto, c’era un armadietto del pronto soccorso, niente di che, ma almeno si è un pochino disinfettata.”
“È ancora una bella donna la moldava?”
“Ma certo, l’avevo già notata una sera in pizzeria… poi mi sono anche scusata…”
“In pizzeria? che hai combinato Anna?” Mario ride.
“Lasciamo stare, una storia lunga.”
“Ho appena appoggiato i piedi sulla scrivania.”
“E va bene… ho bevuto un paio di bicchierini e ho preso il volo.”
“Il volo? ma se sei astemia?”
“Eh! Appunto!”
“E cosa avresti combinato di tanto grave?”
“Beh, ho vomitato.”
“Capirai…”
“Non ho fatto in tempo a raggiungere il bagno.”
Sono sicura che sta trattenendo un sorrisetto. “Ma sì dai, chissà quante ne vedranno in quei locali.”
“Stai cercando di sdrammatizzare l’accaduto?”
“Un pochino.”
“Comunque ha preso su la borsa e se ne è andata giù al borgo, dove c’è il bar.”
“Perché non vai a mangiarti qualcosa?”
“Era chiuso per lutto, magari riaprono…”
“Ma la gustosa scenetta almeno l’hai vista?”
Ancora! “Sì, da lontano, ero a metà dell’argine. Le due urlavano come pazze, poi come ti ho detto per poco non mi faceva fuori.”
“La moldava, la cameriera… ti ha detto chi era?”
“Non l’ho chiesto, mi sembrava sulle sue… ha solo mormorato “rossa put@@na” a denti stretti, anzi “strega sei una rossa P–’’ ma è inutile che te lo ripeta.”
“Dai, bene… e… vatti a mangiar qualcosa, se vuoi ti mando lì Berto se è disponibile. Anzi, lo chiamo adesso.”
“No, non serve, faccio due passi e mi sgranchisco… ora che ci penso, quando è andata alla macchina, quella alta, quella che le ha date, mi sembrava effettivamente una rossa.”
“O Crist- è tornato!”
“Cosa? Che hai detto Mario?”
“N– Niente, niente Anna.”
“Chi è che è tornato?”
“Un… una ex del maestro.”
“Sicuro?”
“Certo, un tipino particolare, tipo “attrazione fatale””.
“Mm… non mi hai convinto. Lei era un uomo? non ci sarebbe nulla di male?”
Mah… una ex del maestro… Era troppo giovane e forte, dev’essere una ginnasta, un’olimpionica, ha scaraventato via la moldava che comunque è più grande di me come fosse stata di cartone. Mm, magari il maestro seppur coi suoi settantanni è o sarà stato un personaggio, un figo, ma che una tipa del genere litighi e sfasci la macchina per lui, senza contare che ha provato a mettermi sotto distruggendo una bici elettrica… non so, la cosa mi stona, c’è un po’ di dissonanza diciamo.
“E adesso Mario?”
“Vengo a prenderti.”
“Ma il maestro scusa? E poi dovrei fare una denuncia, qualcosa di simile.”
“Il maestro? Non lo rivediamo più.”
“Perché?”
“Sta già discendendo gli inferi Anna, l’abbiamo perso.”
Scemo! Sembra serio, non mi piace quando scherza in questo modo. “Mi stai spaventando Mario.”
“Ma certo, scherzavo, ma una cosa è sicura: non lo rivedremo più per un bel po’. E scordati di riuscire a ritrovarlo. A quest’ora sarà già nel Delta, mimetizzato.”
“Ciao…” spengo il telefono. Mi siedo sulla boa, sconfortata. Mi passo tra le mani il rotolo di panno di raso rosso che mi ha dato la bella moldava, un copritastiera tipo quello di ieri, chissà perché il maestro ha voluto lasciarmelo come regalo, forse per questo strano feeling che stava nascendo. Indubbiamente deve avere un significato importante, la chiave d’accesso al suo universo come mi ha suggerito Mario, e devo ammettere che ieri ha funzionato immediatamente.
Mi alzo, vado sulla riva e osservo il Po. Manca la sua barca. È da anni che vive in questo lembo di terra racchiusa tra due fiumi, con canali, lagune, una pianura quasi disabitata e il mare, chissà quando lo rivedremo. Peccato. E adesso?

Riassunto per capitoli

-Risveglio nell’appartamento sul Canal Grande; ritornello assillante.
-In ufficio da Mario, l’agente
-Cattive notizie su Peter Mc Airon: tentato suicidio a causa di una forma di paranoia: stesso motivetto?
-Risveglio da Marta & Bo
-La “bomba’’
-Chiacchierata con Mario visibilmente preoccupato
-Bo impazzito?!
-Approfondimento: Fentanil e Tritono
-Gorgo torbido
-Arriva Marta
-Paratia e pompa
-Rivelazioni e sospetti: chi è Mario?
-Partenza per l’America: ospedale da Peter
-Incontro inaspettato col divo americano (amico di Peter)
-Storia della chiesetta con morale
-Rivelazioni e sospetti: chi era davvero la rossa?
-Torna il tritono: Anna perde i sensi.
-Risveglio in una stanza buia con enorme ventilatore
-Facce amiche. Parlano i dottori.
-Considerazioni sugli earwarms
-La cura di Marta: il rumore bianco
-Due passi in spiaggia, con ciambella
-Ritorno in Italia. Barcone sul fiume Po
-Temporale
-Una villa antica. Le strade d’acqua di Venezia capitale
-Vivere in golena
-Un eremo sul fiume: capanna metà cemento metà acciaio
-Incontro con il maestro

-Davide Gotthelf: il maestro della golena

– Pizza alla diavola

– Hangover

– Rivelazioni musicali

-Il copritastiera rosso

 

Il testo, tutto gratuito, verrà aggiornato in corso d’opera settimanalmente di venerdì. Se ti piace lascia un commento o condividilo. Grazie.

Qui sotto ci sono le schede dei due volumi già pubblicati.