Da tempo volevo “copiare’’ l’idea di Edgar Lee Master, raccontandovi dei morti che ogni tanto mi vengono a trovare attraverso i pensieri o nei sogni.

Non è una cosa macabra, anzi, forse sarà piacevole. Di sicuro è un po’ impegnativa… considerato lo standard attuale.

Inizio con un ragazzo “sentito” qualche anno fa, mentre gironzolavo in un giardino comunale con una vaschetta di patatine fritte in mano.

Viene da sé che i miei interlocutori non riposano in un posto fisso, come sulla collina di Spoon River, ma in uno spazio imprecisato che cercherò di definire in itinere.

***

– Ehi! Dove vai?
– Ti sei fermato? Dai… Ma allora riesci a sentirmi?!
– Dove guardi? Sono qui. Proprio davanti a te!
– Sì-sì, sono la croce… voglio dire: ci sto attaccato fluttuandoci attorno come un’alga ancorata al palo di legno mossa dalle onde. Sai… io ho visto anche Venezia.
– Che mangi di buono da quella scatola?
– Patate cotte fritte?!
– E quello cos’è? sangue?
– Checiapp… mm, non so cosa sia.
– Ah… tipo la salsa al pomodoro, ma zuccherata, ho capito.
– Piaceva anche a me, la mettevo sul pane bianco, quelle volte che c’era, tipo a Natale.
– No. Non distrarti, non andare via, aspetta!
– Voglio solo un po’ di compagnia. Siete sempre tutti così di corsa.
– Volevo raccontarti di me, ce l’hai un minuto?
– Grazie per la comprensione. È così difficile trovare qualcuno in grado di sentirmi.
– Sai… avevo vent’anni. E anche una bella morosa. Con la scusa della guerra riuscii a strapparle un lungo bacio la notte prima di partire.
– Sì, solo un bacio. E che ti credevi? Non eravamo mica sposati!
– Fu proprio mentre fissavo la sua foto, rannicchiato dentro a una trincea fredda, umida e puzzolente, che sentii un particolare zufolìo.
– Sì, tipo un fischio. Quei pochi istanti furono accompagnati da uno strano presentimento di atroce ineluttabilità. D’impeto avvicinai le labbra e la baciai di nuovo, premendole sopra alle sue più forte che potei. Chiusi gli occhi.
– In quell’attimo salii in cielo, ma poi ricaddi. Non avevo più un respiro, non sentivo più nulla, ma vidi la sua foto ancora stretta tra le mie dita, non molto distante da me.
– No, di quel giorno non so altro. Ricordo solo di essermi trovato dove sto ora, davanti a una donna anziana che piangeva. Proprio dove stai tu. Le giostre del Luna Park dietro erano diverse, di legno, e non avevano tante luci.
– Sinceramente non so dirti se fosse mia madre o mia zia. Era tutto più confuso e non riusciva a sentirmi. Ma era davvero molto sofferente.
– Guarda! Un soldatino di piombo col fucile spianato è appena caduto dentro allo stagno. Un’enorme farfalla che nuota come un pesce lo prende in bocca, lo mastica e poi lo sputa. Adesso sta sul fondo.
– Scusami se ti ho rattristito con la mia storia.
– Sai… Ora vorrei tanto mangiare il pane bianco con sopra la salsa di pomodoro zuccherato… e fare un’altra cosa.
– Ma mi ascolti?
– Lo so, ti sto perdendo, ci stiamo allontanando. Credi che io sia solo un tuo pensiero, succede con tutti, ma io sto qui per davvero!
– Dovresti vederti come ti vedo io; mentre ti ingozzi di patate con le dita rosse fissando ebete la mia croce.
– Avvicinati dai. Leggi!
– Eh sì, ottobre 1918, avevo vent’anni. Ma forse questo te l’ho già detto. Però non sai che la guerra sarebbe finita da lì a pochi giorni. Che sfortuna vero?
– Che fissi ancora? E perché scuoti il capo contrariato?
– Ah, ho capito!
– È per la cacca degli uccellini.
– Ascolta: così mi levo un sassolino. Ehi, non ce l’ho con te. La vedi la giostrina che sta là dietro sulla destra?
– Dai, dai, su, guardala. So che mi senti… perfetto!
– Beh, se un giorno ci farai dondolare sopra il tuo nipotino, sorridendogli felice e spensierato, sappi che succederà anche grazie a me.
– Dai che lo so che tu hai fatto all’amore. Si capisce.
– Sorridi vero? Mi compiaccio che hai capito.
– Adesso: perché non vai alla fontanella e bagni d’acqua il tuo fazzoletto?
– Perfetto, quella.
– Poi torni e mi lavi via le cacche degli uccellini.
– Ma noo. Mica per vanità, scherzi?
– È perché almeno così potrai leggere il mio nome. Soltanto quello. Forse ti ricorderai di me, e magari ne parlerai al tuo nipotino.
– Bravo, così. Vai. Io ti seguo fluttuando. Butta quella scatoletta nel cestino e lavati le mani. Hai visto che non sono soltanto un tuo pensiero?
– Ora prendi il fazzoletto, bagnalo…
– Ma aspetta! Dove vai? E il mio nome scusa? Non vuoi ricordarlo?

– Andato.

Io sono esisto, per davvero.
Mi chiamo Gaetano,
avevo vent’anni,
e non ho fatto in tempo a fare all’amore.

***