Sogni e pensieri di qualcuno che non c’è più.

Il milite ignorato

  • Ehi! Dove vai?
  • Ti sei fermato? Dai… Ma allora riesci a sentirmi?!
  • Dove guardi? Sono qui. Proprio davanti a te!
  • Sì-sì, sono la croce… voglio dire: ci sto attaccato fluttuandoci attorno come un’alga ancorata al palo di legno mossa dalle onde. Sai… io ho visto anche Venezia.
  • Che mangi di buono da quella scatola?
  • Patate cotte fritte?!
  • E quello cos’è? sangue?
  • Checiapp… mm, non so cosa sia.
  • Ah… tipo la salsa al pomodoro, ma zuccherata, ho capito.
  • Piaceva anche a me, la mettevo sul pane bianco, quelle volte che c’era, tipo a Natale.
  • No. Non distrarti, non andare via, aspetta!
  • Voglio solo un po’ di compagnia. Siete sempre tutti così di corsa.
  • Volevo raccontarti di me, ce l’hai un minuto?
  • Grazie per la comprensione. È così difficile trovare qualcuno in grado di sentirmi.
  • Sai… avevo vent’anni. E anche una bella morosa. Con la scusa della guerra riuscii a strapparle un lungo bacio la notte prima di partire.
  • Sì, solo un bacio. E che ti credevi? Non eravamo mica sposati!
  • Fu proprio mentre fissavo la sua foto, rannicchiato dentro a una trincea fredda, umida e puzzolente, che sentii un particolare zufolìo.
  • Sì, tipo un fischio. Quei pochi istanti furono accompagnati da uno strano presentimento di atroce ineluttabilità. D’impeto avvicinai le labbra e la baciai di nuovo, premendole sopra alle sue più forte che potei. Chiusi gli occhi.
  • In quell’attimo salii in cielo, ma poi ricaddi. Non avevo più un respiro, non sentivo più nulla, ma vidi la sua foto ancora stretta tra le mie dita, non molto distante da me.
  • No, di quel giorno non so altro. Ricordo solo di essermi trovato dove sto ora, davanti a una donna anziana che piangeva. Proprio dove stai tu. Le giostre del Luna Park dietro erano diverse, di legno, e non avevano tante luci.
  • Sinceramente non so dirti se fosse mia madre o mia zia. Era tutto più confuso e non riusciva a sentirmi. Ma era davvero molto sofferente.
  • Guarda! Un soldatino di piombo col fucile spianato è appena caduto dentro allo stagno. Un’enorme farfalla che nuota come un pesce lo prende in bocca, lo mastica un pochino, e poi lo sputa. Adesso sta sul fondo.
  • Scusami se ti ho rattristito con la mia storia.
  • Sai… Ora vorrei tanto mangiare il pane bianco con sopra la salsa di pomodoro zuccherato… e fare un’altra cosa.
  • Ma mi ascolti?
  • Lo so, ti sto perdendo, ci stiamo allontanando. Credi che io sia solo un tuo pensiero, succede con tutti, ma io sto qui per davvero!
  • Dovresti vederti come ti vedo io; mentre ti ingozzi di patate con le dita rosse fissando ebete la mia croce.
  • Avvicinati dai. Leggi!
  • Eh sì, ottobre 1918, avevo vent’anni. Ma forse questo te l’ho già detto. Però non sai che la guerra sarebbe finita da lì a pochi giorni. Che sfortuna vero?
  • Che fissi ancora? E perché scuoti il capo contrariato?
  • Ah, ho capito!
  • È per la cacca degli uccellini.
  • Ascolta: così mi levo un sassolino. Ehi, non ce l’ho con te. La vedi la giostrina che sta là dietro sulla destra?
  • Dai, dai, su, guardala. So che mi senti… perfetto!
  • Beh, se un giorno ci farai dondolare sopra il tuo nipotino, sorridendogli felice e spensierato, sappi che succederà anche grazie a me.
  • Dai che lo so che tu hai fatto all’amore. Si capisce.
  • Sorridi vero? Mi compiaccio che hai capito.
  • Adesso: perché non vai alla fontanella e bagni d’acqua il tuo fazzoletto?
  • Perfetto, quella.
  • Poi torni e mi lavi via le cacche degli uccellini.
  • Ma noo. Mica per vanità, scherzi?
  • È perché almeno così potrai leggere il mio nome. Soltanto quello. Forse ti ricorderai di me, e magari ne parlerai al tuo nipotino.
  • Bravo, così. Vai. Io ti seguo fluttuando. Butta quella scatoletta nel cestino e lavati le mani. Hai visto che non sono soltanto un tuo pensiero?
  • Ora prendi il fazzoletto, bagnalo…
  • Ma aspetta! Dove vai? E il mio nome scusa? Non vuoi ricordarlo?
  • Andato.

Io sono esisto, per davvero.
Mi chiamo Gaetano,
avevo vent’anni,
e non ho fatto in tempo a fare all’amore.

Il Filantropo

Da piccolo ho ucciso un pulcino.

Ero nella stalla dello zio, fuori da Venezia, sulla terraferma dei contadini.
L’ho inseguito nel mucchio dove stava caldo e al sicuro finché è rimasto solo. Isolato, addossato al muro.
Il furbetto ha tentato una mossa: “Ah! Se solo avesse potuto volare!”
Ce l’aveva quasi fatta, stava per sfuggirmi, ma io con un calcio l’ho stretto in un angolo.
A modo suo ha implorato pietà perché mi fissava col becco spalancato, muto, tremolante, occhi imploranti… Ma la voglia di schiacciare quel tenero e indifeso batuffolo era più forte di me. Implacabile, irrefrenabile.

L’ho schiacciato.
È morto subito, pigolando un grido soffocato dal mio piede. Pio-Pio: Perché!?

In quell’istante, un senso di disgusto accompagnato da un profondo e ancestrale (sconosciuto) rimorso, ha sminuito la sensazione di potere e di controllo quasi erotica provata poco prima, via-via annientandola, ridicolizzandola.
Sono scappato via, nascondendomi per la vergogna. Mi cercarono per tutto il giorno.

Dopo molti anni, ogni tanto, d’improvviso, ripenso a quel pulcino. Capita in un momento qualsiasi; mentre volo sul mio jet o presiedo a una conferenza, ma mai quando me lo aspetto. I professori dicono che sia una malattia mentale; sindrome di qualcosa.
Si sbagliano.
È una punizione divina, o il karma, fate voi, che mi infligge un senso di colpa tanto forte da farmi farfugliare frasi sconnesse ad alta voce, come mi volessi destare da un brutto sogno.

Pensavate davvero fossi diventato l’uomo che ero per la mia smisurata umanità?

Vi sbagliavate.
Ora che sono cenere non provo vergogna.
Confesso che ho sempre donato con la speranza di smorzare la forza di quel grido mai udito.

Ora basta.
I sorrisi di quei bambini guariti, sfamati e istruiti, possano qui darmi pace tra le acque quiete della laguna.

Trilogia della famiglia: Figlio

Dopo la luce arrivò il buio,
ma dopo il buio fu l’oro,
l’oro di cui fu fatto il nostro Giudizio.
Possano le nostre anime apparire nel suo riverbero,
come ombre a dar conforto a chi sta oltre…
There is something especially touching in our finding the sunshine thus freely admitted into a church built by men in sorrow. (*)
È stato così commovente Papà, trovare tanta luce splendente in una chiesa eretta da anime smarrite.
Grazie.

Ti piace?
L’ho pensata per te, perché sapevo che non ti saresti mai dato pace.
L’ho ripetuta urlandola mentre soffiava la Bora, il Garbin, lo Scirocco, la Tramontana…
Visto? Visto che li ricordo ancora bene tutti quei nomi che mi insegnasti sui libri e per mare?
Nomi di amici, nemici o entrambi all’unisono sempre importanti.
Non è colpa tua e nemmeno loro.
Io… sono stato io a voler andare, da solo, oltre la linea nera della tempesta, spinto da quell’irrefrenabile impulso che mosse quel mio coetaneo di nome Icaro.
Il mare e il cielo ci accomuna nella morte, l’audacia dei giovani nella vita. Audacia, talvolta, mal ripagata.
Adesso smetti di cercarmi invano, ti prego.
Smetti di prendere quel vaporetto. Io ti vedo:
io sono pesce, sono sabbia, fango e vongola.
Se può consolarti, una parte di me, non so come, è tra quelle mura dorate vicine al fortunale, erette da mille anni e ancora inesplorate.
Non sono solo; siamo luce, e alcune volte una misura di noi, un guizzo, si manifesta tra i meandri dei fiumi dorati.
Ma continuerò a urlare gli stessi versi, ai venti che mi insegnasti, finché non sarò sentito.
E prima o poi arriveranno a te, puntuali. Te lo ricordi?
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento… (**)
Lo so, ho invertito l’ordine naturale delle cose, ma tu li capirai perché una parte di essi è mia e tua; nostra soltanto.
Allora i cosmi a cui apparteniamo si sfioreranno, e tu potrai percepirmi tra i riflessi dorati di quella chiesa là sperduta, tra le acque serene della laguna.

* John Ruskin, The Stone of Venice, 4 ed. George Allen, 1886

** Eugenio Montale, Xenia – Satura, 1971

Trilogia della famiglia: Il Tramite

Secondo plenilunio.
Ed eccola la luna, piena e luminosa come non mai.
Tutto appare blu, perfino quei cipressi che cantano incitati dalla brezza marina.
Lo sciabordio è incessante, le campane allontanate.
Tacciono le lapidi che riverberano d’azzurro.

Sì; lo capisco che non sei qui per me.
Tu nemmeno lo sai che io riposo in questo luogo ameno.
Ameno non vuol dire brutto o disagiato, come in molti credete.
Ameno, al contrario, significa piacevole, soprattutto alla vista.
Non è per darmi tono che ti spiego questo… è solo che ogni tanto vorrei ricordarmi ciò che ero: uno scrittore.
Goditi questa isola bellissima, silenziosa, immersa nel blu marino della laguna.
E non cercare la mia lapide, perché io sono il signor nessuno. Non ne vale la pena.
Eppure…
Eppure mentre ero in vita, una mano giusta – da Scala Reale – mi è stata data.
E io l’ho usata, oh sì, eccome!
Campavo di stenti a Venezia quando scrissi quell’unica opera, semplice ma non banale, comune ma originale, ma che per disgrazia necessitava di un seguito, un grande epilogo.
Non avvenne: la mia forza creativa era sfinita. Fiacca, non rigenerabile. Avevo smesso di sentire le voci portate dal vento.
Arresomi all’evidenza, iniziai a scrivere cosucce, romanzetti, subito per campare poi per fama.
Ebbi successo e denaro; mi ci abituai subito.

Ma, accidenti: è come se ci fosse una proporzionalità diretta tra il successo immediato e l’oblio eterno!

Cerca, cerca su qualche bancarella da mercatino e forse troverai un mio romanzo a 1 €.
So che non tutti sono finiti al macero, qualcuno è rimasto nascosto nelle polverose soffitte poi sgomberate.

E sulla mia prima grande opera che dire?
Era un ottimo caffè, poi annacquato dalle infinite aggiunte letterarie successive. Il vero epilogo non c’è mai stato. E adesso ha il sapore di brodaglia.

Un ragazzo muore in mare, a causa di un fortunale, in Laguna Nord, dove sorgevano antiche città ora scomparse.
Il padre non si dà pace, la barca che gli aveva costruito non era perfetta, e lui questo lo sapeva.
Aveva due importanti commesse da terminare e il compleanno si avvicinava.
Forse bastava un legno migliore, forse dei buoni remi, forse una vela più…
ma coi forse non si va da nessuna parte.

Nel frattempo il corpo del ragazzo si trasforma: diviene pesce, conchiglia, sabbia. Perché noi siamo fatti con le stesse cose di questo mondo, di questo mare. E quando la forza superiore che le tiene unite viene meno, esse ritornano al loro stato naturale.
Il giovane vede il padre che non sa darsi pace, e la pena è tale che decide di urlare ai venti il suo perdono.
Voci e brandelli di strofe, mischiati al garrito di un gabbiano solitario, al gracchio delle gru migratorie lassù nel cielo, ai suoni di sciabordii e campane, giungono portati dal vento a chi passa vicino a quell’antica cattedrale dalle pareti incrostate d’oro, eretta nel fango in tempi lontani.
È davvero commovente come un popolo in fuga e spaventato, abbia costruito qualcosa di così luminoso al suo interno.

Alla fine, semplicemente, non fui più in grado di scrivere quelle poche strofe indirizzate al padre.

La luna ora è calante, e io ti lascio con l’epigrafe che avrei voluto incisa sulla mia lapide se non fossi morto d’improvviso:
Quando la luna si fa blu, (once in a blue moon), approfittane, ma diffida se la strada che si palesa rimane pervia.

Trilogia della famiglia: Il Padre

Sai quanto vale la vita del tuo figliolo?
Vale la differenza tra un legno sano e uno da rimpalmare, come si usava nell’antico Arsenale dei veneziani. Ma lì vi si costruiva una galea al giorno… altra storia, altri tempi.
Io invece ero solo e talmente preso dal mio fare quotidiano, che persi di vista l’affetto più caro, commettendo l’errore più grave: darlo per scontato.
Non ho più avuto pace.
In certe notti passate in laguna, sotto alle stelle, m’è sembrato di udire la sua voce tra i venti gelidi provenienti da Est.
Quanto dolore riesce a sopportare un padre rimasto solo? e il rimpianto? il senso di colpa? e il cuore che rinsecchisce?
Ho fatto scorrere quel poco sangue rimastomi sopra alle pagine di un libro sconosciuto, scritto da uno sconosciuto lasciato da uno sconosciuto. Arrotolato e riposto maldestramente tra altri libri in una cassetta appesa a un albero.
Iniziai a sfogliarlo subito e poi a leggerlo con interesse; c’era qualcosa tra quelle parole di suo e di nostro.
E ora, nella quiete dell’isola più amena di Venezia ne cerco l’essenza.
Ma il nostro segno di riconoscimento per l’aldilà qui non funziona. Se fischio, escono violette tra le tombe, se grido il suo nome, sento profumo di vongole fresche. Se rievoco dal profondo dell’anima il mio dolore, precipito dal cielo come un angelo con le ali disciolte, in un mare d’oro.
In tutto questo c’è quel pensiero che ritorna, mosso da un guizzo di lietezza: alla fine, dopo tanto lottare, ti arrendi stanco nell’oltretomba: è andata come è andata. E almeno, per un po’, trovi la pace.

Lo scrittore vanitoso

Ma che ci sarà dietro a quel cancello?
Scopriamolo!

“Ehi! Tu! Occhialuto, dove vai?”
“Ti ho visto da fuori, figura ieratica. M’ha incuriosito il tuo portamento, la tua eleganza… ma chi sei?”
“Riposo lì!”
“Dove?”
“Lì!”
“Ma dove? Non capisco?”
“Lì… lì, sotto quella lapide tra le erbacce. Ma che sei? Stupido?!”
Allungo la mano trapassando il suo corpo.
“Ah! Ora capisco…”
Col piede, forse un po’ irrispettosamente, muovo alcune erbacce. Che fatica!
Appare un “zr ovnd” nascosto tra le foglie marce e il terriccio smosso da qualche roditore.
“Ho capito! So chi sei.”
“E tu, chi sei? Presentati!”
Gonfio il petto: “Beh, mi epiteto come Scrittore della Laguna, ma alla fine era solo un suggerimento per farmi trovare meglio, sai… mica tutti hanno un nome strano come il tuo.”
Sorride: “Strano?” Poi in un guizzo del sopracciglio, subito serio.
“Beh, particolare…”
Sorride di nuovo… dai, per un pelo, lisciato.
“E tu, lo meriti?”
“Che?”
“L’epiteto lunghissimo che mi hai detto prima? L’ho già scordato”.
“Abbastanza da poterti ricordare di quella volta che da piccolo persi il capellino e tu me lo raccogliesti. Eri ben vestito, un elegante signore distinto. Io risi, avevi due borse della spesa piene di salumi e altre buone cose da mangiare. Eravamo in Piazza, tra le colonne di San Todaro e di San Marco. Porta pure male.” Vediamo se si accorge dell’errore…
“Il leone, il leone… non il santo,” borbotta tra sé fissando a terra. Poi mi guarda: “Ma dici davvero?” Si passa la mano sulla barba ben curata.
“Ma va là, scherzo!”
“E come osi? Irriguardoso!”
“L’ho letto, ho letto da qualche parte persino cosa ti comperavi quando facevi la tua spesa mattutina.”
“Un libro su di me?”
“Eh! Li hai fregati tutti per benino. Son ancora lì che si arrovellano per capire che hai scritto in quei versi. Furbo…”
“Genio…”
“Può darsi. Sai… a uno studioso, un filosofo, che di certo non è un fascistone, gli è scappato che sei stato il più grande poeta del secolo.”
“Tutto qui?”
… !? …

Gli rispondo facendo spallucce, come fosse poca cosa.
“Dai, scappo, è stato un piacere Spirito di Ezra.”
“Attento a non inciampare nella tomba ingombrante lì di fianco, quando te ne vai.”
“Quale? quella ricoperta di fiori freschi?”
“Sì, proprio quella. Ma dimmi? C’è bisogno di fare tanto chiasso?”
“Invidioso? Lui i fiori freschi… tu le erbacce.”
“Beh, sai come si dice… l’erba cattiva non muore mai.”
“Sì, ma tu sei morto.”
Sorride sornione. Poi capisco: mi ha fregato: lui è eterno.

Sto fermo un attimo vicino alla tomba del russo. Anche qui la scritta è quasi illeggibile tanti sono i fiori freschi che la ricoprono.
“Ma?” Mi giro di scatto, qualcuno mi ha battuto sulla spalla.
“Ancora?!”
“Ma certo, e chi molesto? Oggi ci sei solo tu.”
Si liscia la barba: “Lo conosci?”
“Sì, ho letto qualcosa di suo.”
“Le poesie?”
“No, una roba tipo un racconto… Fondamenta degli Incurabili.”
“E tu la chiami roba? Signore della Laguna?” Scuote la testa.
“Scrittore…” lo correggo.
“Come ti pare.”
“Sai… ce l’aveva un po’ su con te…”
“Con quel fascistone di Ezra? Ma dai? che novità! Lascialo stare il russo, che magari era pure comun-”
“Non dirlo nemmeno! Con tutto quello che ha passato poveretto!”
“E io? Ne ho passate poche? E poi, a me nemmeno un Nobel! Scherzo… intanto beccatevi i miei cantos!”
“Beh, mi ripeto, per alcuni sei il più grande poeta mai esistito. Ma dimmi la verità: quei versi inarrivabili li hai scritti un po’ a caso o c’è sotto del genio?”
“Studiali!”
“Eh… grazie tante.”
“Chiedi al russo. Anzi, no, lascialo stare, vai là in fondo, dal Corvo.”
Sono io a sorridere questa volta. “Chi? Baron? Rolfe?”
Annuisce fissandomi con uno sguardo deciso, acuto, penetrante.
Faccio spallucce: “Almeno quello lo capisco.”
“Davvero?”
“Beh, sì, ho letto un suo romanzo. Tutto chiaro mi pare.”
“Quale?”
Il desiderio e la ricerca del tutto.”
“Titolo un po’ impegnativo, che dici?”
“Beh, se non altro qualche copia l’ha venduta. Viveva come un poveraccio vagabondando per le calli e le chiese di Venezia.”
Ezra allarga la bocca, forse un sorriso.
“Perché sorridi?”
“Glielo hanno pubblicato dopo vent’anni che ha preso residenza su quest’isola!”
Mi schiaccio il viso tra le mani. Poi strofino. Su e giù.
“Che hai, giovane scrittore aspirante in erba?”
“Ho: che penso di avere compreso questa nostra conversazione-”
“Sì…”
“Questo dialogo impossibil-”
“Sìì…”
“Questo dialogo improbabile tra creature dell’ari-”
“Sìì, Savater, ottimo! Continua!”
“Io… io ci sono riuscito! Sto qui con voi.” Potendo lo abbraccerei stretto stretto, forte forte.
“Come no? Sei morto.”
“Sì,” mi guardo attorno, forse più estraniato del solito:
“Ma ce l’ho fatta!”


Altri epitaffi in futuro? Può darsi.